Un dipinto.

di Marco Occhiuto, II C

«Sublime è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore a ogni misura dei sensi.»

– Immanuel Kant 

In occasione dei suoi novant’anni, in un confidente clima di festa, il nostro liceo ha avuto occasione di arricchirsi ancora più profondamente in ragione di illuminanti interventi, progetti, iniziative. Tra le autorevoli voci che il Giulio Cesare ha avuto la fortuna di ascoltare, e di far proprie, vi è quella di Piero Boitani, filologo, critico letterario e traduttore, il quale ha messo a punto, con fine acume di studioso, le note più rilevanti, più pregnanti del concetto di ‘sublimità’.

Sublime: idea, realtà, illusione, astrazione? Che cos’è il ‘sublime’? E davvero così indissolubilmente riguarda e condiziona le nostre vite? Chi mai, passeggiando per via, gettando lo sguardo al cielo, leggendo un testo, sorseggiando una tazza di tè, ha mai concepito il ‘sublime’, gli ha dato un nome, una definizione, lo ha descritto con le più precise determinazioni, di luogo, di tempo, di relazione?

Eppure, il ‘sublime’ intride di sé il nostro animo, la nostra ψυχή, in modo molto più determinante, più forte, più profondo, più dirompente di quanto noi stessi crediamo. 

Ma andiamo per gradi. 

Il ‘sublime’, ha osservato il professor Boitani, è un concetto antico, remoto nel tempo. L’ha messo a punto un certo Longino – così almeno ci si compiacque di credere per secoli, fino a quando si persero certezze sulla sua identità, ed egli fu detto ‘Pseudo-Longino’ –. Tale concetto, ha continuato il filologo, fa parte della nostra interiorità; sempre ne ha fatto parte, anche se, per alcuni frangenti della storia, è stato messo da parte, allontanato, si è fatto finta di non vederlo più. Poi, nel Rinascimento, eccolo rifiorire, risorgere – nella teoria, nella documentazione, s’intende, perché nell’animo degli uomini era sempre rimasto –. 

Tale Longino, o chi per lui, scrisse uno dei più felici trattati di estetica dell’antichità, insieme con la ‘Poetica’ di Aristotele: il trattato, appunto, ‘del Sublime’. 

I primi riferimenti al ‘sublime’ derivano, com’è ovvio, da Omero. Il ‘sublime’, osserva Longino, è un bene di natura piuttosto che una conquista dell’anima; lo possediamo oppure no. Non esiste una terza via. 

Questo bene dell’interiorità fluisce senza fine nei versi omerici, dov’è in embrione tutta la letteratura; ed è presente con particolare potenza nei passi di tipo agonistico, o in quelli che maggiormente indagano la psicologia di un certo personaggio.  

Al riguardo, il professor Boitani ha citato un passo, che riportiamo: 

Talora il nudo pensiero, privato anche della parola, è ammirato per se stesso, a causa del suo alto sentire; si veda il silenzio di Aiace nella Nekyia, grande e più sublime di qualsiasi discorso. (Del Subl.  IX)

Tanto separa Odisseo, ancora, dalla ‘dolcezza di figlio’,  dal ‘debito amore’; ancora le onde avverse, i disegni imbastiti da Poseidone, gli ostacolano il travagliato nòstos. Alzate le vele, ormai lontano da Circe, si dirige questa volta verso l’Ade. Vi scende, e là assaggia, in anticipo, il mondo diafano, incolore, umbratile, scevro di vita, che i Greci consideravano l’ ‘Ade’. Tra quegli spiriti incorporei, alienati, vani, c’è anche la madre, Anticlea. L’ ‘ultima sera’ è giunta a calarsi su di lei, mentre il figlio è ancora nel gorgo del mare. Tra gli altri, c’è anche Aiace. 

A lui le ‘parole gentili’ di Odisseo. ὁ δέ μ’ οὐδὲν ἀμείβετο, («ma questi nulla rispose»); in questo verso è la sublimità, per sempre. «Interrompendo il fluire della parola, Aiace permette all’ascoltatore di raccogliersi e di ascoltare la voce della sua disperazione» (Donadi). Questo verso, che tace, è ‘sublime’.  E non già perché così ha stabilito Longino, ma perché è più d’un verso: è un’eco, una sensazione, un’immagine poetica, che si imprime nell’animo del lettore; vi attecchisce con incredibile vigore, e vi rimane, pronto a essere riutilizzato, a riottenere – adesso che è null’altro che una flebile eco – la voce possente della poesia, del canto. 

Così accadde in Virgilio che, travolto dal ‘sublime’, impresso dentro di sé, lo ‘riemesse’, lo lasciò di nuovo sublimemente fluire, nei versi dell’Eneide. Dunque, come Aiace, la sua Didone recens volnere («fresca ancora di dolore») tace.

Ma come! «È l’ultima volta che posso parlarti!», le grida incredulo e disperato Enea. 

Niente: lei tiene fissi gli occhi a terra, torvi; e il suo volto non muta espressione alle dolci parole d’amore, di scuse, di perdono. Alienata, tacita, si dilegua, e non lo degna d’uno sguardo, neanche di lontano. Non è tutto questo ‘sublime’? 

«I discorsi più grandi sono di coloro che hanno elevati pensieri», ha detto il professor Boitani, sulla base di quanto si apprende nel Trattato.

E – cosa mirabile – il  ‘sublime’, come abbiamo visto, talora non necessita neppure della voce: esso la trascende. 

Il filologo ha quindi citato un secondo passo, qui riportato:

Ma lui, il Poeta, come dà grandezza alle cose divine?

«Quanto spazio abbraccia un uomo con gli occhi

sedendo in un luogo d’osservazione e contemplando il mare color del vino,

tanto ne superano di un salto i cavalli degli dèi, che alto nitriscono.» 

Egli commisura il loro salto alle dimensioni dell’universo!

(Del Subl. IX, 5).

E ancora:

Tremarono gli alti monti, le foreste,

le cime, la città dei Troiani e le navi degli Achei

sotto i piedi immortali di Posidone che avanza.

Egli spingeva il cocchio sui flutti, e i mostri[marini intorno gli balzavano

da ogni parte fuori dai loro recessi, riconoscendo il loro signore.

Per la gloria il mare si aperse, e i corsieri volarono.

(Del Subl. IX, 8).

Avvicinando fenomeni naturali – in questo caso tremendi – al divino, Omero rende pienamente il ‘sublime’, che commuove l’animo dell’ascoltatore.

Omero pensa l’impensabile e raggiunge le vette più alte della poesia: la porzione d’immensità concessa agli occhi mortali dell’uomo è paragonata alla distanza che coprono, saltando, i cavalli degli dèi. L’azione divina sublimemente abbraccia, in una raffinatissima similitudine, le incommensurabili dimensioni dell’universo. 

Poco oltre, l’inaspettato: nel fior fiore dei grandi poeti, citati da Longino, rientra anche il legislatore dei Giudei, che, “in capo alle Leggi [si è espresso]: «E Dio disse», egli scrive. Ma cosa? «Sia la luce, e la luce fu; sia la terra, e la terra fu»”(Del Subl. IX, 9). 

Nel suo intervento, il professor Boitani ha evidenziato le corrispondenze, nell’ambito della sublimità, tra Omero e il suo recente traduttore, in forma lirica, Michael Longley. L’opera di Longley si chiama Il maestro del lume di candela

Il poeta britannico ha fatto propri alcuni passi omerici, sapendone cogliere il ‘sublime’, che egli ha sapientemente instillato nelle sue liriche ‘omericissime’. 

Il professor Boitani ha letto The Camp-Fires, poesia da lui stesso tradotta. 

L’atmosfera è quella di febbrile attesa, che precede il combattimento decisivo, dove Ettore perderà la vita. Le stelle brillano in cielo, la luna è abbagliante.

A lei sorride un pastore (shepherd smiles). Giù, i falò.

Ecco, anche qui, irradiarsi da ogni verso il sublime: il pigolio cadenzato delle stelle, delle faville dei falò, pare il riflesso del tremore di ogni soldato, avvolto nella trepidazione di una angosciosa attesa. E non c’è solo Omero. Il pastore – ha osservato anche il filologo, nonché traduttore, Boitani – rimanda spontaneamente al celebre pastore leopardiano, che vaga, come la luna, per i ‘sempiterni calli’, per giungere infine, dove ‘il tanto affaticar fu vòlto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto obblia’. 

Ma Omero, e con lui il ‘sublime’, compaiono in tante altre liriche di Longley. Del resto il poeta britannico chiama – così scrive nella prefazione del libro suddetto Boitani – Omero “landa immensa”, da cui egli attinge ogni sua immagine, ogni suo verso. 

Non di rado il ‘sublime’ riguarda eventi agonistici, duelli tremendi, uccisioni terrificanti. È il caso della lirica Glory, anch’essa tradotta e letta dal professore. 

Come tra le gole d’un arido declivio

Infuria il fuoco consumatore e incenerisce

La fonda foresta, coi venti a turbinare fiamme intorno,

così con l’asta Achille divino infieriva

premendo le vittime, e sulla nera terra correva il sangue;

e come quando si aggiogano i buoi dall’ampia fronte

per trebbiare l’orzo chiaro sull’aia cospicua

e presto i buoi muggendo sgranano le spighe

sotto le zampe, così al di sotto di Achille potente.

[…]

Ma il Pelide era trascinato dal desiderio di gloria,

il sangue raggrumato sulle mani indomabili.

L’immagine è potentissima, nel suo espressionismo; è icastica ed efficace, e il poeta ricorre, come faceva Omero, ad articolatissime similitudini, in virtù delle quali natura e divino sembrano intrecciarsi e suscitare, in questa loro ‘celeste corrispondenza’, il sentimento più profondo e intimo dell’uomo. 

Concludendo, il professor Boitani ha letto War, dove si canta l’uccisione di Ettore. Le osservazioni sono pressocché le stesse. 

Direi che va bene così. Eppure il professor Boitani ha aperto nuovi orizzonti, ma non del tutto: ha lasciato che qualche fronda, qualche ostacolo, ne velasse la completezza. I passi di Longino (o di chi per lui) e di Longley riportati sono, credo, efficaci ed esaustivi. 

Ma sono del parere che la nostra riflessione su cosa sia il ‘sublime’, questa ‘eco d’un alto sentire’, come si legge nel Trattato, cominci paradossalmente proprio da qui, dal terreno che il professor Boitani, citando Omero e Longley, ha sapientemente predisposto. È giunto, ora, il nostro turno.

Il ‘sublime’, del resto, è qualcosa di molto più umano, di molto più radicato, presente in noi di quanto possiamo credere; e soltanto lasciando, per un attimo, da parte tutto il resto possiamo, guardandoci dentro, concepirne la più autentica essenza.

Ricapitolando, il ‘sublime’ è la capacità di riflettere nella poesia (oratio) gli alti pensieri della mente (ratio), dando vita a un canto toccante, commovente. 

È, inoltre, capacità esclusiva di anime elevate, e, dunque, non tutti lo possiedono. 

Tuttavia, tutti, io penso, possono goderne. 

Sublime vuol dire trionfo dell’estasi, cenere della ragione; vuol dire il fiorire del pianto sulle ciglia, ai suoni martellanti di un verso potente e poeticissimo. 

Quante volte, leggendo o ascoltando qualcosa, abbiamo fatto esperienza tangibile, e celeste, del ‘sublime’? Quante volte un colpo di glottide è venuto a interrompere la voce, nel mezzo di una lettura appassionata, e abbiamo sentito prorompere un velo dolceamaro di lacrime? 

Poesia! Ha questa forza la poesia? Ha questa forza, direi per estensione, l’arte intera? Senz’altro. 

La ragione si stempera, per un istante di beatitudine, cedendo l’austero posto a una dolce ebbrezza sensitiva. Forse perché, nel canto, leggiamo noi stessi, per usare le parole di Proust. 

‘E il naufragar ci è dolce in questo mare’, in questo ‘folle volo’ dei sensi, in questa dolcissima vertigine del sentimento, come Lotofagi affamati di melos. 

Per un attimo, nell’alone mistico della sublimità, Ino, la dea bianca, ci sottrae, nuovi Ulisse, al gorgo delle onde, al naufragio della vita, e ci porta nelle cose che ci trascendono. Ma è un attimo. E in fondo alla dolcezza, c’è un sentimento di terrore, di vertigine appunto.

Perché il ‘sublime’, diranno più tardi i romantici, è ‘terrore’. 

Nel Settecento, in una interpretazione dello scritto longiniano che ha nome Inchiesta sul Bello e il Sublime, Burke «contrappone il sublime, il cui principio dominante è l’amore, al bello, legato all’amore» (Donadi). Terrore e amore, dunque, vengono a sconvolgere la nostra vita, che di per se stessa fluisce su una linea monotona d’inerzia. Sotto questa luce, il sublime-terrore si lega a thànatos, mentre il bello-amore a èros

Ciò che è sublime, dunque, reca con sé il terrore; è maestoso, alto, produce un senso di vertigine, pur nella sua straordinarietà. 

L’uomo, scopritore della conoscenza su quest’ astro scintillante, per usare l’espressione nietzschiana, ha messo a punto, con mirabile vivacità d’ingegno, rimedi su rimedi per le sventure, i mali, che la natura – la crudele matrigna per Leopardi – può presentargli. Si crede ormai un nuovo Prometeo, invincibile. Così va avanti, il suo mito del progresso, della vittoria, del trionfo.

Malattie, morte, dolori son tutte cose che l’uomo man mano lascia dileguare dai suoi orizzonti visivi, per addormentarsi, egli, in un confidente letargo di piacere e di sicurezza. Guai a svegliarlo dal sonno! 

Ma quando rientra in contatto con le cose che grandeggiano, di fatto, su di lui e che, inevitabilmente, lo trascendono, egli ne è travolto. 

Così il ‘sublime’ gli pare terrore; e qui, all’apparir del vero, cade misera ogni sua illusione.

Ho scelto un passo particolare, che credo adeguato, per dare prova di questo ‘sublime-terrore’. 

L’incipit parla da sé e il passo non esige presentazioni:

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale. […] Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio…[…] una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno. (I Promessi Sposi, XXXIV)

È forse uno dei passi più struggenti della nostra letteratura; al lettore, profondamente toccato, pare di vedere l’immagine, quasi cinematografica, del ‘fiore già rigoglioso sullo stelo, che cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte le erbe del prato’. Questa scansione fatale, decadente, disincarnata, drammatica e però maestosa, signorile, preziosissima, rappresenta certamente un passo dove si fa tangibile esperienza del sublime, e però al contempo si rimane impietriti, dinanzi a un mistero, quello della morte, che ci supera e che ci sfugge.

La morte prematura, il destino ultraterreno, sono tematiche che grandeggiano sull’uomo. Non c’è dubbio. 

Eppure come nient’altro questa poesia s’imprime nell’animo dell’uomo, ché, come osserva Longino, al sublime è «impossibile resistere: persiste nella memoria ed è difficile da cancellarsi’». 

È proprio alla ‘vertigine delle cime’ che, del resto, aspira il ‘sublime’; cime che solo una mens mota, ispirata, può toccare. L’uomo si addentra in questi luoghi sacri, privati, sibillini, che il divino ha ritagliato per sé, e ne è estasiato, ma anche terrorizzato. Come Prometeo, si eleva al cielo, nella sua bramosia cosmica. Cerca sempre di più. E donde cerca – natura divina, recondita, sacra, inviolabile – egli, il poeta, trae il sublime. 

La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi. (U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis). 

«La natura –continua Francesco Donadi– dà eco alla disperazione di Jacopo Ortis, prossimo al suicidio. Ricordate? Il sublime è l’eco di un alto sentire. 

E l’eco è solo delle vette (akròtes), degli ‘infiniti silenzi’, che soli permettono alla poesia di far sentire la sua voce». 

Anche Kant, in un primo tempo, asseconda Burke, e scrive: «[e sublime e bello] provocano nell’animo una deliziosa commozione, ma in modo completamente diverso. La visione di un monte le cui cime innevate si levano sopra le nubi, la descrizione dell’infuriare di una tempesta … suscitano piacere misto a terrore; l’occhio che spazia su prati in fiore, valli percorse da rivi … procurano anch’esse sensazioni deliziose, però liete e aperte al sorriso. (…) Il sublime commuove, il bello attrae» (I. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime).

In seguito, raffina le sue idee e scrive, nella Critica nel giudizio: «sublime è ciò al cui confronto ogni cosa è piccola (…) sublime è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore a ogni misura dei sensi». 

L’uomo, dapprima intimorito dalla disorientante immensità del ‘sublime’, se ne scopre, per Kant, infine padrone, in un’ottica ottimistica che auspica, e anzi crede, il trionfo dell’uomo. 

Ma davvero è così? O vi sono realtà che per la loro profondità, in gran parte a noi sconosciuta, ci intimoriscono? 

L’immensità che si apre sulla linea dell’orizzonte ci commuove, ma al contempo ci dà il senso del nostro nulla. E un senso di terrore, sotto forma d’un brivido subitaneo, scorre per la pelle. 

L’uomo si immortala solo nella poesia, nel canto dolcemente annega. Il velluto del melos si distende placido sul senso del terrore, e il dolce mare degli ‘interminati spazi’, della ‘profondissima quiete’, mareggia – pare – senza inquietarci troppo. 

Forse Kant ha peccato di presunzione: l’uomo sa ben poco, e ciò che lo trascende null’altro può fare se non intimorirlo, atterrirlo. È naturale che avvenga. 

Ma al poeta piace illudersi. E il prodotto della sua arte, il sublime, che pure è misto al terrore, gli pare superiore a ogni cosa, alle vette dei monti, ai confini dell’universo. Con le ali della poesia, dappertutto egli può viaggiare, dolce naufrago. 

Mutuando da Nietzsche, dinanzi al sonno dell’uomo, «risvegliatelo!», grida il filosofo, nel pathos della verità. «No. Lasciatelo stare» esclama, invece, l’arte.

E così il naufragar continua, nella sua dolce ebbrezza.

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