di Biancamaria Emanuela Mungari, I D

Amore. Una parola. cinque lettere. tre sillabe: a-mo-re. Eppure, racchiuse tra queste, traboccano miriadi di emozioni, sorrisi, sussurri, carezze e ferite profonde capaci di lacerare eternamente l’organo vitale che pulsa nel nostro corpo. È il cardine della nostra esistenza, ispirazione per poeti e compositori tra i primi della letteratura italiana, oggetto di rappresentazione per artisti e pittori, il filo conduttore di uno spartito che congiunge note e suoni che uniti costituiscono una melodia ineffabile.

È già fin dalla nascita che la nostra vita pone inconsapevolmente e delicatamente, camminando come in punta di piedi, le sue radici nell’amore: banale e semplice, come quello che rende lucidi gli occhi emozionati di un innocente bambino, che riflettono la soffice lana del peluche che profuma del dolce preparato dalla nonna, sempre fumante e puntualmente in tavola agli albori della domenica mattina, che inebria le narici di quel sicuro aroma di casa, di famiglia; ma anche intenso e travolgente come quello che, durante l’adolescenza, suscita i più forti palpiti del cuore e quella sensazione di fermento in continua agitazione nel nostro intimo, che, per primo, rappresenta il discrimine tra “l’uomo dall’essere inanimato”, la fiamma che arde nelle nostre membra, e, più semplicemente, ciò che ci rende realmente vivi. Si dice che l’amore più bello sia proprio quello adolescenziale poichè vissuto nel momento più spensierato della propria esistenza, in cui si ha una maturità tale da riflettere sul futuro e sull’angoscia, destata solo al pensiero dell’incertezza del domani, che porta lo sguardo a rivolgersi verso il basso, simbiotico del silenzio assordante che piomba nella mente introspettiva, ma pur sempre trasfigurato da gli occhi di un bambino, leggero e frivolo, trascurante il peso degli incombenti impegni della vita adulta, che, talvolta, giungono anche a plasmare la purezza di questo sentimento, inducendo a rimpiangere la giovinezza oramai sfiorita, il tempo nel quale “ogni cosa era più facile”.

Galimberti, ispirandosi alla visione dell’amore platonico, lo definisce come “intermediario tra razionalità e follia”, mediatore tra ragione, ciò che finisce il significato di ogni cosa, aumentando la prevedibilità dei comportamenti e riducendo quindi l’angoscia, lo stato più temuto dall’uomo; e follia, essenza appartenente solamente al mondo degli immortali, degli dei, che allo stesso tempo contamina la nostra psiche. L’amore, dunque, quel sentimento che riesce a rimetterci in contatto con la nostra parte dissennata, costituendo la mania più travolgente e mozzafiato, la “follia delle follie”, tuttavia, è contemporaneamente sinonimo di mancanza, desiderio, carenze, delle quali la più aspra e dolorosa è la nostra impossibilità di disporre di Αmore, in quanto è esclusivamente quest’ultimo a disporre di noi, e, una volta trapassata la nostra anima, a investirci come un vento forte, carico di pazzia, che ha il potere di sconvolgerla, ma che allo stesso tempo conduce lo spirito verso una dimensione risiedente oltre la realtà sensibile.

Amore è il traduttore del linguaggio razionale per il lato folle dal quale siamo captati e sopraffatti, ed è proprio questo che ci congiunge con quella che, secondo il mito di Platone degli ermafroditi, è il completo incastro della nostra essenza, colui che “intercetta la nostra follia” e “ fa l’amore con il nostro spirito”, atto che Platone concepiva in modo completamente diverso rispetto a quello diffusosi ai nostri giorni, generato dalle convezioni e dalle consuetudini, talvolta distorte, macchianti ogni più individuale e transeunte pensiero.

“Fare l’amore”, infatti, esprime un significato tanto intenso quanto intimo, celante e conservante la visualizzazione, l’intercettazione della dissennatezza all’altro e il conseguente cambiamento del modo di scrutare e decifrare la realtà razionale.

L’amore genera, trasforma, arricchisce ed eleva, indipendentemente dall’epilogo che la collisione tra le follie che abitano due individui designerà. Appaga completamente l’animo, imprime quella stessa percezione di serenità che si prova a correre abbracciati dal vento per una strada desolata con i con i capelli intrisi, quanto gli indumenti che aderiscono alle forme del proprio corpo, dalla pioggia di un temporale tartassante mentre un caldo e mite sorriso si schiarisce melodiosamente su un volto che osserva il cielo piangente, ma soprattutto colma, fino a farlo quasi fuoriuscire dal petto, il cuore di chi accoglie impavido questa fiamma ardente, accettando anche il rischio di scottarsi. Poichè amore è coraggio, forza, sacrificio e libertà.

Personalmente ritengo che l’amore sia proprio ciò rende la vita degna di essere vissuta, della quale per prima bisogna essere innamorati, e, seppur Platone sia convinto che questo sentimento sia il tramite tra idea e apparenza, e, pertanto, che la cosi ricercata beatitudine sia raggiungibile solo nel mondo intelligibile, diversamente sostengo che l’amore sia l’unico mezzo che gli uomini posseggono per respirare la felicità nel mondo percettibile, nel quale siamo tutti, casualmente, destinati a vivere.

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