di Maria Mandolesi, III B

Ora riposerai eternamente, mio sfibrato cuore. L’illusione, che credevo sarebbe stata eterna, è ormai svanita, è morta definitivamente. Tra gli inganni anche il desiderio si è eclissato, così come la speranza. Risposa per sempre, hai palpitato a lungo. Le tue palpitazioni e i tuoi movimenti non valgono niente, poiché la vita non è altro che noia e amarezza; il mondo è fango. Sei ormai quieto, disperati per un’ultima volta. Il fato ha conferito all’uomo un solo dono: la morte. Prova ribrezzo nei confronti di te stesso, della natura, del turpe potere che, nascosto, governa per la rovina universale e dell’infinita inconsistenza della realtà.

 “L’infinita vanità del tutto” è l’amara conclusione di A se stesso. Apparentemente può sembrare una forma di nichilismo, una truce consapevolezza dell’approdo all’arido vero, ma l’intento leopardiano non è la costruzione di un’ontologia del non essere. Come mette in luce Prete, quale sarebbe il senso della poesia di Leopardi se tutto fosse nulla?

Il pensiero poetante leopardiano ha sempre usufruito della poesia come instrumentum. Talvolta è necessaria come mezzo di resistenza di fronte alle ceneri del paesaggio vulcanico nella Ginestra, altre volte è λυσιμελής, “che scioglie le membra, gli affanni”, come nel caso di A se stesso. L’io lirico, dialogando con il suo cuore, oggettiva l’amara verità: il velo di Maya è stato svelato, le illusioni sono cadute. La speranza di raggiungere la felicità eterna, la tensione verso l’infinito, la convinzione che l’uomo sia l’essere prediletto e che il mondo sia fatto su misura per lui costituiscono le false speranze dell’essere desiderante che cerca di trovare un appagamento ai suoi bisogni. Leopardi sa bene che, tuttavia, l’uomo è destinato allo scacco poiché la sua volontà di soddisfare un desiderio infinito spazialmente e temporalmente si scontra con la limitatezza della vita di ciascuno e con l’insignificanza del picciol piccolo in cui viviamo.

Esistono certezze allora? Le uniche sono il dolore, la morte. Qui non sono presenti le domande incalzanti di Saffo, animata dal desiderio di capire quale colpa vetusta l’avesse resa invisa alla natura, o quelle del pastore volenteroso di conoscere il senso della vita. La paratassi, la ricorrenza della punteggiatura forte, le rime difficili non lasciano scampo: non esiste un senso alla vita.  Il suggerimento di questa certezza giunge poi dalla perpetua e petulante ripetizione di termini legati al campo della negazione (vv..5,7,13 non, v. 7 nessuna), tra cui nessuna (v. 10) che costituisce un enjambement funzionale per ribadire la completa vacuità, assenza si significato. Esiste solo la certezza della morte, del non essere, del dolore, barcollante essa stessa nell’incertezza poiché, sebbene tutti la conoscano in maniera indiretta, nessuno in vita può dire di averne fatto esperienza. L’abisso che il vecchierel bianco e infermo si trova dinanzi abbraccia tutto e tutti, sia chi è nato in cuna sia chi è nato in culla. Μὴ φῦναι tramanda una massima sapienziale greca: sarebbe stato meglio non nascere. Lo stesso Lucrezio non comprende il senso del dì natale se, fin dall’inizio, il bimbo deve esser consolato per il solo fatto di essere nato.

Cosa può fare il cuore, la pompa palpitante del nostro corpo, quella che ci permette di continuare a errare nella nostra amara esistenza? Finalmente può acquietarsi poiché l’uomo non è più vittima degli inganni. Ormai Leopardi sembra, come suggerisce la sentenziosità del testo, aver espresso in tutta la sua durezza la ἐπιστήμη τής ἀληθείας, la conoscenza della negatività del reale che impropriamente viene chiamata pessimismo. Come il Cosimo di Calvino che dall’albero osserva il mondo sottostante e si aliena da esso contemplando la realtà in maniera oggettiva, così Leopardi si chiude nella sua intimità ponendo come interlocutore il suo cuore, il suo essere, la sua persona. Nella consapevolezza della necessità che ogni uomo divenga conscio nella propria interiorità della negatività del reale, Leopardi rimarrà solo temporaneamente incapsulato nella sua intima dimensione personale. Nel 1836 comporrà infatti La Ginestra dove, invece, prevale un titanismo cosmico che abbraccia tutti gli uomini, chiamati a creare una social catena atta a lottare contro la comune inimica. Si tratta di un conflitto sicuramente destinato al fallimento, ma non per questo meno dignitoso di essere perseguito. Il desiderio, spento in A se stesso, si vivifica e si potenzia confluendo nella tensione che dà l’impulso all’uomo di reagire. Tutti dovremmo acquistare una briciola di quel vitalismo che aveva permeato i combattenti alle Termopili, lodati nella celebre canzone All’Italia, e diventare commilitones consapevoli e uniti. Il male addizionale prodotto dall’uomo può essere eliminato, mentre quello costitutivo, che ci caratterizza dal principio poiché nascendo morimur, no. Nel Dialogo della Natura e di un Islandese è ben delineata dall’islandese la responsabilità della natura come creatrice del male costitutivo ineliminabile. Essa, tuttavia, non agisce poiché mossa dalla volontà di scaturire nell’uomo una sofferenza tale, ma si occupa della conservazione del tutto in senso meccanicistico e non teleologico. La natura ingurgita l’uomo, il macrocosmo fagocita il microcosmo, l’equilibrio generale sovrasta il male individuale, la specificità dell’individuo kierkegaardiano crolla sotto l’oneroso peso del sistema hegeliano. Il male, dunque, non esiste per un motivo, esiste e basta.

Così come esiste la noia, il taedium vitae, evidenziata sapientemente mediante l’enjambement ai versi 8-9, definibile come uno stato e non come una sensazione circostanziata e collegabile a un oggetto specifico. Esiste, è, semplicemente c’è. Si insinua in ogni pertugio che trova occupando  il volume di magnitudine più elevata possibile, come fa l’aria o un qualsiasi gas. “La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia” dirà Schopenhauer. 

Se la vita è noia, il mondo è fango, termine esemplificativo della concretezza lessicale (v. 7 palpitasti, v. 9  terra,v. 8 moti, sospiri) adottata dall’autore per esplicitare il suo contatto diretto con la realtà effettuale dei fatti. I verbi e i sostantivi, che scardinano l’uso onnipresente degli attributi negli idilli, si rivelano più funzionali a una rappresentazione del reale scevra di ogni edulcorazione. I primi infatti delimitano, circoscrivono in maniera oggettiva l’oggetto in analisi. Gli aggettivi, invece, qualificano dando spazio all’io di esprimere le proprie percezioni sensoriali o i propri giudizi di valore. In A se stesso ne sono concessi pochi, tra cui estremo, collegato all’illusione dell’eterno, e stanco, relativo a uno stato oggettivo del cuore.   

La sera del dì di festa, invece, si apre con un notturno lunare in cui la notte dolce e chiara fa da sfondo a una luna che posa serena creando un quadretto idillico, edulcorato dal ricordo appannato del poeta. La rimembranza, completamente assente in A se stesso, permette a Leopardi di rivivere il tempo della verde etate. Ogni elemento indefinito, come una torre antiqua o un canto che proviene da lontano, permette all’io di riallacciare un legame con il tempo dell’anteriorità, il quod erat senecano, e di usufruire della massima facoltà che caratterizza l’uomo, l’immaginazione. Questa permette infatti di costruire una realtà parallela da cui l’uomo possa trarre qualche giovamento. Negli idilli non possiede, tuttavia, una funzione meramente consolatoria, ma anche preservativa e conoscitiva. Viene infatti conferita una parvenza di presenza a qualcosa che non è più esperibile, a un ricordo che viaggia dal passato al presente garantendo all’io, limitato temporalmente, una collatio omnium temporum. Costituisce il motore propulsore che mobilita l’uomo per sporgersi oltre la siepe, superare il limes per tentare di cogliere l’infinito. Il pensiero che prova a pensare l’infinito cerca nella poesia l’instrumentum per carpirlo, ma entrambi falliscono, come riconosce anche Prete: il pensiero riconosce “l’impensabilità” del tutto, la poesia comprende l’inesprimibilità del tutto. Come si può racchiudere l’infinito negli aggettivi interminabile, profondissima, sovrumani? È dunque svelato il motivo per cui l’infinito passa per traslazione dall’essere un sostantivo, che conferisce il titolo all’idillio più celebre, a un attributo in A se stesso: l’infinito non è un oggetto. L’infinito non può essere espresso. L’infinito non può essere immaginato. Baudelaire direbbe che il mare è un raggio dell’infinito e forse è per questo che nell’incertezza onnipervasiva il naufragar è comunque dolce. Nel ciclo di Aspasia non è neanche nominata l’idea di un naufragio che, come ben esemplifica la “Zattera della Medusa”, presuppone una possibilità di salvezza. Non è minimamente vagheggiata una liberazione ideale come quella del pastore desiderante di diventare un volatile, capace di rendere l’infinità sterminata delle stelle contabile. Non ha senso fornire un’alternativa in quanto non esiste qualcosa di alter. Bisogna semplicemente acquetarsi, riposare, accettare e disprezzare per l’ultima volta il tutto.

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