di Marco Occhiuto, II C

I dualismi piacquero tanto a chi li ideò; meno a chi dovette sorbirseli.

Cartesio propose il suo, e, malgrado l’elevato livello della sua filosofia, quanto più tale suo dualismo prendeva forma, tante più numerose divenivano le critiche, tanto più fitti si facevano i dubbi.

È a tale dualismo che M. Scheler, nell’opera La posizione dell’uomo nel mondo (1928), – non per primo e non per ultimo – muove le sue critiche.

A parere di Scheler, l’errore di Cartesio è stato quello di non lasciare posto, nella sua filosofia, alla spiegazione del ‘sistema pulsionale’ nell’uomo; vale a dire, alla spiegazione del vero rapporto che sussiste, nell’uomo, tra la sua parte pensante e quella corporea.

L’unità tra pensiero e corpo, per Scheler, è possibile soltanto in virtù del sistema pulsionale, il quale eserciterebbe la sua forza sulla mente sotto forma di impulsi (ossia ‘spinte’ – pellere in latino significa proprio ‘spingere’) che, accolti dalla mente, si traducono in fenomeni corporei.  

Non convinto da Cartesio, cercherò in questo testo di riflettere e di dare ragione della relazione tra corpo e pensiero, ma in modo diverso, o perlomeno non totalmente concordante, rispetto a quello di Scheler.

Pensiero e corpo devono necessariamente essere parti di una realtà unica e unitaria – diversamente dalla tesi cartesiana –; ma la loro conciliazione in unica realtà non è spiegabile, o perlomeno è semplificata, se la si concepisce dall’angolatura di Scheler: credo che il parallelismo tra psiche e corpo, dunque, possa trovare una definitiva spiegazione soltanto in forza dell’appoggiarsi di essi su un unico sostegno, non necessariamente o non soltanto pulsionale – direi piuttosto sostanziale –, che li unifica e ne giustifica la compresenza in unico soggetto. Sotto questo aspetto, la mia riflessione si avvicinerà al pensiero di Spinoza.

All’inizio si è parlato dell’ideazione dei dualismi (si pensi anche a quello platonico) come a una trovata personale e orgogliosa di singoli filosofi, ai quali successero altri pensatori i quali o li accettarono e si incatenarono ad essi oppure profusero il loro impegno solo ed esclusivamente per abbatterli.

In realtà, concepire e giudicare come due realtà diverse corpo e pensiero è intuizione cui la filosofia è, a un certo punto della sua indagine, necessariamente condotta. È il destino, suppongo, di qualsiasi sistema filosofico. Essa, osservando la natura delle cose, deve fare i conti con l’evidenza che il soggetto pensante consiste, oltre che nell’intelletto, pure in una parte corporea, estesa, materiale.  

Date queste premesse, e visto che il problema esiste, occorre riflettere su quale rapporto o relazione sia da stabilire tra ciò che Cartesio chiama res cogitans (sostanza pensante) e res extensa (sostanza estesa).

Cartesio, nell’unica e suprema certezza del cogito, considerò il soggetto come intelletto, ragione, pensiero, vale a dire come sostanza pensante. Tale era l’unica sua certezza: di essere qualcosa che pensa. Ma intorno a tale res gravitava un mondo intero, in continuo divenire, mobile, multiforme, opinabile, variopinto; e questo mondo divenne per lui altra sostanza, inconsapevole e materiale, che chiamò res extensa.

L’uomo, dunque, per Cartesio, si ritrova a vivere in una realtà che è inconsapevole finanche della sua esistenza, e che agisce soltanto in forza di un assoluto determinismo. Non solo: l’uomo è anch’esso, in parte, res extensa, materiale: è come se vivesse intrappolato in una macchina, che egli deve lasciare quando tale macchina ha finito il carburante o non è più utilizzabile Per questo si è parlato, sempre nell’ambito delle critiche mosse al filosofo francese, di ‘fantasma nella macchina’.

Se poi a tutto questo si aggiunge che la filosofia di Cartesio esigeva, come garanzia di ogni vera conoscenza, un Dio buono e perfetto, viene da chiedersi come una res extensa determinata e agente per leggi proprie e necessarie, possa convivere con la presenza di un Dio perfetto, che, oltre a fungere da mero suggello dell’autenticità del sapere, si limita a fornire all’universo la carica necessaria perché esso si conservi, e si conservi nella sua necessaria materialità.

Inoltre, come possono intelletto, ragione, pensiero – vi è in Cartesio tale identificazione – vivere nella manifestazione di una sostanza materiale, vale a dire il corpo, che a tutti gli effetti è una macchina?

Come è possibile che il soggetto, nella sua vera essenza di cosa pensante, si annulli e si disintegri nell’annullarsi e nel disintegrarsi di un sostegno materiale e incosciente al quale esso è ancorato?

Può l’intera essenza pensante dell’uomo tutta dipendere da un ammasso indefinito di materia, e quindi di nervi, di vene, di materiale cerebrale?

E, infine, quale valore filosofico può vantare quel tentativo estremo di Cartesio di attribuire alla ghiandola pineale la funzione di permettere la comunicazione tra le due sostanze?

E tutte le funzioni corporee – entro le quali rientra senz’altro il complesso della vita pulsionale e affettiva di cui parla Scheler – sono estromesse dalla ‘sfera psichica’ e la loro ‘spiegazione’ è ‘puramente chimico-fisica’.

È in tutto questo il problema della filosofia cartesiana; più ancora, è in questo il dramma della filosofia cartesiana. Sta tutto qui, condensato e avviluppato, intenso e preoccupante, in questo relazionarsi impossibile della mente con il corpo e, più in generale, della sostanza pensante con quella materiale.

Scheler, dal canto suo, fa notare che il corpo è invece necessariamente unito alla psiche, da cui anche dipende, adducendo a sostegno della propria tesi l’esperimento di Heyder, ‘secondo cui la semplice suggestione del mangiare un cibo sortisce gli stessi effetti che si verificano a proposito del mangiare effettivo’.

Cosa mancò dunque a Cartesio? Scheler risponde: l’accettazione del sistema pulsionale come mediazione tra ciò che il corpo fa e ciò che la mente pensa.

Saggiando questa tesi, credo si possa pervenire alle seguenti considerazioni:

  1. movimento vitale e contenuto della coscienza appartengono a un’unica sostanza;
  2. il movimento vitale è la reazione a uno stimolo da parte della mente, che, accolta una percezione [il pezzo di carne per il cane], influenza il corpo in un determinato modo [la secrezione, da parte del corpo, dei succhi gastrici];
  3. la mente non ha bisogno che si presenti al corpo la causa dello stimolo, perché concependone in sé il ricordo o l’immagine, può sortire, sul corpo, i medesimi effetti che deriverebbero a esso da un’esperienza concreta.

Credo che, per salvarci dal problematico dualismo di Cartesio, sia assolutamente prioritario accogliere la prima considerazione che deriva dalla tesi di Scheler, vale a dire che psiche e corpo, cessando di essere essi stessi sostanza, sono invece più verosimilmente parti conciliabili di un’unica realtà o, meglio, di una sostanza medesima.

In questo modo si risolve la difficile frattura che vi era in Cartesio tra le due res.

Usciti dall’ombra che il dualismo ci gettava addosso, possiamo aprirci a nuovi e più estesi orizzonti, anzi a un unico orizzonte filosofico, che nella sua luce considera come piccole parti ciò che prima consideravamo sostanze.

Sulle considerazioni successive (B e C), però, vedo, dal mio punto di vista, scendere di nuovo qualche ombra.

Se il movimento vitale è la conseguenza di ciò che la mente interpreta e concepisce, e induce a fare, in seguito a stimoli esterni, vuol dire che la mente è causa di quel movimento vitale.

Il che, in generale, è vero: sarebbe un’assurdità – ed è stato già approfondito – sostenere che la mente si barrichi nel suo essere, quanto più estranea e lontana dal mondo che le gravita intorno, e che di per sé stessa e in sé pensi, concepisca, ragioni, desideri, agisca, allo stesso modo in cui un computer elabora e ordina i suoi dati prescindendo totalmente dal mondo esterno, di cui non ha, e non può avere, coscienza. C’è dunque una relazione tra la mente e il mondo esterno: vedremo più oltre come, cioè di quale natura, sia questa relazione.

D’altra parte, a ben guardare, la conclusione di prima [la mente è causa del movimento vitale] può intendersi, per estensione, anche nel senso che la mente è causa del corpo; il che ci riporterebbe a un rapporto di disequilibrio, dove, fatto più grave, una sostanza causa l’altra. Ma, se ci atteniamo a Spinoza, come possiamo ammettere che una sostanza abbia in un’altra sostanza la causa della sua esistenza? Mi si potrebbe dire che la filosofia non procede per ipse dixit. E va bene. Ma non va bene, invece, che si abusi del termine ‘sostanza’, a proposito di qualsiasi, anche infima, cosa. È vero che per Aristotele anche io, che ho in altro la mia causa efficiente, sono sostanza; ma bisogna ricordare che per Aristotele vale l’uguaglianza sostanza = essere = necessità, nel senso che, tolta la sostanza, nessun tipo di essere ha più vita; quindi per lo Stagirita l’essere in sé è vera sostanza, vero sinolo di unica forma e unica materia. Avvalorare tale verità, che la sostanza abbia in sé la propria causa e necessità, fu, in seguito, preoccupazione di Agostino con la sostanza divina come causa sui.

            Ma i punti deboli della tesi di Scheler non sono ancora alla luce.  

Il mqodoV della filosofia sempre tende all’universalità, difficilmente a una verità ‘perlopiù’. Seguendo Scheler, ci imbattiamo senz’altro in una verità, ma non già in una verità filosofica. La mente sente e il corpo, compulso, si comporta di conseguenza. Perlopiù.  

Ebbene, sotto tale luce, – pensava Spinoza – come possiamo giustificare i meccanismi del corpo quando la mente è incosciente, per esempio nel sonno? O, più ancora, perché il corpo mantiene vive le sue funzioni anche in quei pazienti in stato vegetativo, in cui la mente è praticamente assente? Noi non pensiamo, eppure il nostro corpo agisce, senza che vi siano impulsi esterni; noi non diamo disposizioni, non vediamo all’infuori di noi alcuno stimolo, eppure il nostro corpo procede nel suo funzionamento a noi di fatto sconosciuto. Questo ci porta a dire che:

  • la mente non sempre è causa del movimento vitale;
  • gli impulsi esterni comportano sì una reazione suggerita dalla mente cosciente, ma attribuire totalmente a loro la mediazione tra corpo e mente non è giusto in quanto non universalmente valido.

E, a un tempo, ci porta a concludere che:

  • mente e corpo sono indipendenti; e se la mente cede al cedere del corpo è perché cede la manifestazione passeggera di quell’unica sostanza eterna (chiarirò più avanti) che unifica mente e corpo. E tale manifestazione passeggera è l’individuo;
  • mente e corpo – imprescindibile unità – non agiscono, o non agiscono sempre, in ragione di un sistema passionale: anche chiuso in uno spazio per nulla stimolante, o anche (e dico questo per confutare la possibile obiezione secondo cui, pure al chiuso, un soggetto può avere la ‘semplice suggestione’ di qualcosa attraverso, per esempio, la memoria) in stato vegetativo, un soggetto continua, se e fin quando è possibile, a conservare il suo essere (mente e corpo insieme). Essi agiscono per propria necessità.

La tesi di Scheler affonda, a ben vedere, le sue radici nell’humus di una coscienza di sé e dell’agire umano oserei dire antropocentrica.

L’uomo ha la presunzione di poter governare con atti mentali i suoi atti corporei. In realtà, il soggetto, che per Spinoza è manifestazione transitoria (modo) di un’unitaria ed eterna sostanza, funziona, in quanto a entrambi i suoi attributi (pensiero ed estensione), per ragioni proprie; anzi, per necessità.

Inglobato nell’ordine cosmico, dove vale l’equazione sostanza = natura = necessità, anche l’uomo si piega, senza che lo sappia, a tale necessità, prescindendo eventualmente anche dagli impulsi esterni o, come lo chiama Scheler, dal sistema pulsionale: si tratta di una sua intima e ineludibile necessità.

Questo non elimina la prima considerazione (A), che ‘tutto sia uno’: il soggetto è uno, e se ha paura in intellectu tale emozione si traduce in una accelerata palpitazione, per esempio, o in sudore. Ma ciò non toglie che gli atti umani siano tutti intessuti di necessità, perché parte di un ordine eterno e necessario. E se imbatterci fisicamente o mentalmente in qualcosa ci appare contingente, se le nostre decisioni sembrano dipendere da noi, è solo perché non conosciamo la causa che lì, a quel punto, a quella decisione, ci ha condotti. 

 “È un dramma”, grida qualcuno! “È la beatitudine”, risponde Spinoza. Ai suoi occhi, essere consapevolmente parte di un ordine perfetto, eterno, giusto, da cui guardare il mondo del molteplice e anche del dolore, è la vetta più alta del sapere e della scienza intuitiva; è il salto noetico di Platone che compiutamente si realizza; è l’eroico furore di Giordano Bruno che ha trovato l’infinito e ci si è eternamente abbandonato; è il ‘folle’ ma razionalissimo ‘volo’ in una conoscenza senza eguali; è il punto di arrivo di una filosofia fredda e geometrizzante e che si scopre essere infine amica, la più amica, dell’uomo.

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