di Beatrice Orsini, I F

“Clitennestra”, con Isabella Ragonese, è uno spettacolo teatrale del regista Roberto Andò, basato sulla rivisitazione del tradizionale mito operata dal romanzo La casa dei nomi di Colm Tóibín. La tragedia è stata rappresentata, in prima nazionale, nello scenario del teatro romano di Pompei e in seguito a Roma al teatro Argentina.

È la storia di una madre amorevole, di una donna lacerata e messa da parte, di una moglie furiosa e posseduta da un’accecante rabbia, ormai disillusa da dei e uomini ed incapace di andare oltre il suo cocente dolore. Ed è proprio questo sapore intimo, psicologico, malinconico, rabbioso ed emozionante il perno attorno al quale ruota l’intero spettacolo.

Clitennestra è moglie di Agamennone, re di Micene, e madre di tre figli: Ifigenia, Elettra ed Oreste. La primogenita, Ifigenia, viene brutalmente strappata all’amore della madre per mano dello stesso padre Agamennone. Attratta presso l’accampamento degli Achei, in procinto di partire per la guerra di Troia, con la falsa promessa delle nozze con il fulgido Achille, viene poi sacrificata agli dèi per ottenerne il favore nella navigazione e nella guerra.

La regina, distrutta, rivela il suo nero animo impazzito, la sua irrequieta e profonda interiorità, che diventa lente di ingrandimento attraverso la quale vengono mostrate le ambientazioni sceniche: la luce tagliente e impietosa dei neon illumina stanze spoglie, squallide, fredde, connotate da ruggine incrostata e pochi pezzi di arredamento; la turpitudine esteriore non è altro che un’eco della mente contaminata, lo stato interiore catatonico della regina, che riduce un palazzo sfarzoso come quello di Micene, a camere da letto inospitali.

Clitennestra «ha dimestichezza con l’odore della morte», odore che la perseguita, la ossessiona, la incatena ad un dolore tale da portarla inevitabilmente ad escogitare un elaborato piano di vendetta che costruisce e perfeziona con l’amante Egisto, silente spettatore ed esecutore, figura ovattata dall’ingombrante presenza della protagonista, che mette in luce le due facce di una medaglia di furore ed estrema lucidità.

La giustizia, gli dèi, le regole: concetti che la regina ha ormai disintegrato. Ella scava così a fondo dentro sé stessa, in una società che non la rappresenta e non le dà voce, che la strada per placare la mania e la riprovevole brama di sangue e morte le prende forma davanti. Ed è una strada che ha costruito da sola, a fatica, con il solo ausilio di sé stessa, abbandonando la fede, gli dèi e, ahimè, gettando in secondo piano l’amore per quei due figli rimasti in vita, Elettra, fanciulla inquieta e nervosa che inveisce contro la madre anch’essa straziata da lancinante dolore, e Oreste.

La scena è irregolare ed irrequieta e non segue la cronologia degli eventi. Già dalle prime note dello spettacolo sono il dolore e l’indignazione della protagonista tradita e decisa che scandiscono il ritmo degli eventi: riquadri, frammenti, sezioni che si susseguono a scatti; passato e presente sono un unico, immenso, bacino di sofferenza che mette la protagonista in ginocchio e la costringe a rivivere ora dopo ora una realtà in cui è stata intrappolata e trascinata con l’inganno.

La guerra a causa della quale il marito ha immolato Ifigenia, Clitennestra non la comprende, non ne è toccata. Vediamo la regina, una volta scoperto l’inganno, rinchiusa in una cella nell’accampamento acheo con la figlia sconvolta; vediamo i tentativi disperati di placare l’intransigente re, anch’egli lacerato dalla decisione ma tuttavia irremovibile da tale, nefasta, decisione; vediamo il Pelide, il quale nome era stato infangato e fraudolentemente utilizzato per attrarre nella rete dell’inganno la figlia, che tenta disperatamente di salvare il suo nome.

Il personaggio di Ifigenia, effimero, ineffabile, ma al tempo stesso concreto, è il casus belli della lotta interiore della madre, la quale rabbia ha plasmato la storia e la sorte. Il passaggio dall’estrema felicità al più nefasto dei destini è rappresentato dallo straziante corteo festoso che la accoglie appena arrivata all’accampamento acheo, che con false risate e gioiosi balli la intrappola in una rete di bugie ed intrighi; corteo che muta volto, che si muove in bilico sulla labile linea divisoria tra lacrima di gioia a lacrima di sofferenza, che in una sfuggente danza, in un ultimo canto, toglie la sua maschera teatrale e rivela l’ineluttabile, drammatica sorte di Ifigenia. Intrappolata nella cella con la madre, la ragazza tenta di salvarsi in un ultimo confronto con Agamennone: terribile la scena del dialogo tra un padre e una figlia, faccia a faccia, due mondi contrapposti, nella terribile discrasia tra onore e famiglia, tra affetto e dovere. Un destino che incombe sul capo di entrambi, un velo scuro che ricopre il cielo ed addensa l’aria. Il decisivo momento nel quale Ifigenia si trasforma improvvisamente da dolce, ingenua, spaventata fanciulla a donna orgogliosa, coraggiosa e consapevole, che affronta a testa alta la morte e trasforma il dolore in alto ideale, è dettato da un monologo che, agli occhi della madre, non giustifica la sorte riservata alla figlia, causata dall’uomo che aveva sposato. La morte di Ifigenia è riassumibile in un urlo di puro dolore, una scheggia che trafigge l’animo attraverso il quale è narrata la vicenda; un urlo che soggioga il pubblico, che crea un’ingombrante presenza costante nella scena e che coincide con il concitato respiro di Clitennestra.

I personaggi del mito vengono dunque fatti rivivere, trasformati nella loro essenza, allontanandoli dal loro essere algidi, immutabili, distanti, quasi sottomessi. Ciò che causava tale bidimensionalità era infatti la presenza degli dèi, ma Andò, con il personaggio di Clitennestra, ci presenta l’abbandono dell’obbedienza all’ordine divino, l’inesorabile vacillare delle leggi: ne risultano personaggi visti in una nuova ottica, umanizzati, con personalità precise, dotati di intelletto, scopi, motivazioni, profonde emozioni, immersi non in una dimensione di statica e fissa ufficialità, piuttosto in complessi dilemmi interiori, sociali e familiari. La regina, da sempre rancoroso ed implacabile mostro, assassina malvagia ed infedele, è qui una donna erosa dal dolore, vittima di abbandono, sostituita dal marito, e che, modulando controllo, desiderio, potere e dolore, sceglie la vendetta. Non è dunque solo vittima, ma è una donna ferita, alle prese con una realtà che l’ha lacerata e con emozioni contrastanti e distruttive.

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