di Sofia Liverani e Livia D’Amico, I F
Ogni giorno noi alunni incontriamo i nostri professori e passiamo buona parte del nostro tempo insieme a loro. Forse non molti di noi si sono chiesti quali vicende abbiano portato le nostre reciproche vite ad incontrarsi nelle classi del nostro liceo.
L’idea di intervistare i professori è nata a seguito di un corso che chi scrive ha frequentato, il cui tema era il rapporto tra docenti e studenti; l’intervento particolarmente interessante della Professoressa Smeragliuolo, che descriveva la sua visione della scuola e degli studenti, ha suscitato il desiderio di capire per quale motivo gli insegnanti decidano di intraprendere tale carriera e il percorso che li porta a compiere tale scelta.
L’intervista che segue sarà la prima di altre che permetteranno di scoprire chi sono davvero le persone che ci guidano nella formazione e nella crescita personale.
Incontriamo oggi il Professor Roberto Contessi, docente di storia e filosofia.
Professor Contessi, vorrei iniziare chiedendole da quanti anni insegna e da quanto tempo in questo liceo.
Faccio questo mestiere da 18 anni, dal 2006, e in questa scuola da 8 anni, dal 2016. Ho svolto il concorso per l’insegnamento nel 1999 e la prima cattedra l’ho conseguita nel 2005. Mi sono avvicinato alla scuola abbastanza tardi, senza fare lo stesso percorso di alcuni miei colleghi, ovvero quello delle supplenze. Non mi interessava entrare in quel meccanismo di attesa, di costrizione di ore, in tante scuole diverse.
Questo percorso alternativo che ha fatto in che cosa consiste?
Dal 1991 fino circa al 2003 ho fatto l’intellettuale. Fare l’intellettuale significa vivere di borse di studio e di progetti di ricerca. Questo mio periodo si può dividere in tre fasi; innanzitutto la fase del dottorato, che consiste in una specie di post-laurea; quindi la fase del tentativo di fare carriera universitaria: questo significa avere un insegnante che ti ospita nella sua cattedra per il quale si devono svolgere una serie di attività di formazione al suo posto, come esami, lezioni, e via dicendo; la terza fase è stata invece quella in cui ho capito che con l’università sarebbe stato un percorso molto lungo, pertanto sono diventato redattore di una piccola casa editrice, la Edup.
Tutto qui?
Sempre in questo periodo ho fatto altre esperienze che dal punto di vista dell’insegnamento mi hanno formato: dal 1998 al 2005, per sette anni, ho insegnato tecniche di scrittura di semplificazione del linguaggio amministrativo. Con un’associazione culturale, Carta Semplice, che faceva capo allo studioso chiamato Tullio de Mauro – ex-studente del Giulio Cesare, che ricordiamo ogni anno con una cerimonia in suo onore – ho formato il personale amministrativo (Comuni, Regioni ad esempio), insegnando a scrivere in modo comprensibile. Immaginate quando vi arriva una multa: a volte le informazioni non sono chiare, si capisce ben poco. La cattiva scrittura è una pessima abitudine del nostro Paese. Lo scopo di Carta Semplice era quello di diffondere stili di scrittura maggiormente efficaci: bandire lo stile “burocratico”.
Che tipo di esperienza è stata?
Quella con la Pubblica Amministrazione fu un’esperienza di grande ricchezza: mi piace molto insegnare alle persone adulte perché pongono delle resistenze e quindi bisogna mettersi in gioco. Ho anche condotto un corso di scrittura creativa per tre anni all’Università Popolare, sempre in una situazione mista, con giovani e meno giovani; tutto molto stimolante perché insegnare a chi non è obbligato ad apprendere è una bella sfida, contesto opposto a quello della scuola. Nel contesto scolastico infatti molti colleghi si possono permettere di esigere l’attenzione perché la formazione a scuola è un obbligo. Secondo me è un errore di prospettiva: l’esperienza che ho avuto prima della scuola mi ha formato e convinto che se non c’è comunicazione, non c’è insegnamento.
I ragazzi per lei non sono quindi semplicemente persone che devono stare ferme ad ascoltare.
Nessuno mai! Nessuno mai deve stare in un luogo per obbligo. In un cinema, in un teatro… se c’è un film che non mi piace, o un concerto o uno spettacolo, prendo e vado via. Io credo che la cultura sia una scelta, che sia opzionale, vocazionale. E quindi stare a scuola non credo che sia una missione, anzi, credo che sia un errore concepire la docenza scolastica in questo modo. Penso che sia un mestiere, un mestiere che deve avere le sue tecniche. Ho l’impressione che una parte degli insegnanti non sia preparata a queste tecniche e dunque non domini completamente il proprio mestiere. Per il solo fatto di stare in un luogo d’insegnamento, pensano di saper insegnare: non è così.
Lei è arrivato all’insegnamento volontariamente? Ha deciso di fare l’insegnante o ci si è trovato per una serie di circostanze?
Entrambe le cose. Quando mi sono diplomato, non era certo ciò che volevo fare. Non volevo perché ho vissuto la scuola come un luogo di ingiustizie, e questo mi ha segnato. Ho frequentato il Giulio Cesare in tempi molto diversi ma le questioni erano sempre le stesse: l’equità, i voti meritati, suscitare passioni e interesse, la trasparenza.
È un caso che lei insegni in questa scuola?
Sì e no. È un caso che oggi io mi trovi ad insegnare proprio qui: in realtà volevo lavorare in un posto dove si potessero svolgere attività interessanti, cioè si potesse sperimentare. Il Giulio Cesare mi sembrava il posto giusto e ho fatto domanda per insegnare in questo Liceo. È capitato che sono stato nominato: la vita è anche fatta di occasioni, di tentativi e anche di fortuna.
Per quale motivo non voleva insegnare?
Diciamoci la verità: non ritenevo di essere tagliato a farlo. Ero molto esigente, con gli altri ma anche con me stesso. Invece, negli anni di formazione, negli anni in cui ho fatto l’intellettuale, insomma, ho vissuto un periodo di grande condivisione: eravamo un gruppo di giovani assolutamente appassionati, quasi esaltati, leggevamo continuamente libri che ci scambiavamo, ogni giorno avevamo un’idea, andavamo ad ascoltare qualcuno, a vedere qualcosa… Quindi è stata una vita da intellettuale assolutamente “matta e disperatissima” (ride, ndr.). Lì ho capito quanto la passione fosse il sale dell’apprendimento. Ho fatto il concorso da professore come tentativo; era una tra le varie possibilità nella vita di un letterato e debbo dire che, però, l’ho fatto preparandomi seriamente. Nel senso che poi quando faccio una cosa…
Lei ci si mette.
Mi ci metto. E in modo anche un po’ coraggioso: per preparare la prova scritta ho dovuto interrompere tutte le altre attività remunerative da settembre fino a febbraio, chiuso a casa, con 50 euro – era il ‘99, no, 50mila lire – sul mio conto in banca. Tutte le scelte si pagano, anche la scelta di fare una cosa per bene. Non mi era rimasto veramente un soldo in tasca (ride).
Che cosa avrebbe fatto altrimenti?
Mah, l’università mi attirava, solo che l’ho trovato un mondo molto competitivo, e io, pur essendo a mia volta competitivo, trovavo il momento della prova molto stressante. “Prova” significa fare interventi in convegni, significa la pubblicazione di un articolo. Ovviamente questo non vuol dire che io abbia scelto una professione più facile, però ho pensato che sarebbe stato molto difficile essere in un posto in cui sentivo la pressione del potere e a me non piace essere sottomesso. L’Università era ancora il dominio di quelli che i giovani degli Anni Settanta chiamavano “baroni”.
Che cosa avrei fatto? Intanto, accanto all’insegnamento, ho lavorato come giornalista. Come esito di questo periodo di formazione varia, uno dei miei contatti mi ha aperto la possibilità di essere addetto stampa. L’addetto non è prettamente giornalista come voi (indica le intervistatrici, ndr.), ma cura l’immagine di un soggetto. Nel mio caso un’azienda che si occupava di welfare. Questo lavoro mi ha offerto l’opportunità di curare i suoi libri, il suo sito web, i rapporti informativi con gli iscritti e con i giornali del settore economico. Eravamo nei primordi dell’era di Internet e tutte le aziende cercavano giovani esperti e con la mente aperta: come ho detto prima, l’uomo giusto al momento giusto.
Quindi se non avessi insegnato avrei continuato a fare il giornalista a tempo pieno. A un certo punto, però, non ce l’ho fatta più: era una vita complicata, quella dell’addetto stampa, che ho svolto insieme all’insegnamento fino al 2015, quindi, tutto sommato, fino a pochi anni fa.
Questa scelta dell’andare verso l’insegnamento è stata influenzata da qualcuno o qualcosa?
Intanto volevo scrivere un libro sulla scuola, cosa che ho fatto, per dire la mia su questo argomento. È stata anche questa un’esperienza interessante, perché scrivere un libro implica anche trovare qualcuno che te lo pubblichi e portarlo in giro per pubblicizzarlo. Dopo la pubblicazione, nel 2016, ho partecipato a tavole rotonde, presentazioni, incontri per un paio di anni in modo fitto per esporre il mio punto di vista: ho rappresentato una voce, piccola, perché non è che sono un uomo noto, ma una voce che è stata ascoltata. Ecco, anche fare lo scrittore era la mia alternativa. Avrei fatto il giornalista oppure mi sarei messo a scrivere. Ognuno nasce con un suo talento e, lo dico senza vanto, per me scrivere è come respirare, bere, camminare, è una cosa che mi viene spontanea. Fatemi sottolineare quest’idea: anche fare lo scrittore è un mestiere. Gabriel Garcìa Marquez diceva che quando si metteva a scrivere si infilava la tuta, come se andasse in fabbrica. Per raggiungere l’obiettivo di scrivere un libro ben fatto, dovevo fare una scelta di vita ed è stata una grande molla per abbandonare la mia attività da addetto stampa. Un altro stimolo è stato appunto entrare in questa scuola. Volevo concentrare la mia vita completamente in una sola attività perché per tanto tempo, svolgendone due, non mi sentivo completo, non mi sentivo di fare bene né l’una né l’altra.
Intendiamoci: per quanto mi riguarda, lavorare come addetto stampa mi ha permesso di conoscere il mondo del lavoro, con un contratto vero, condiviso, discusso, combattuto. In cuor mio penso che si è un buon insegnante quando non si è lavorato sempre da docente. Per quale ragione? Perché penso che a scuola devi portare il tuo salvadanaio di esperienze che ti sei conquistato fuori le mura scolastiche. Credo… nell’osmosi tra diverse competenze? Nei vasi comunicanti? (ride)
Quindi un insegnante che non solo insegna per lei cosa significa?
Allora, significa prima di tutto che metti la tua ricchezza nel mondo della scuola. E credo che gli insegnanti abbiano molto bisogno di non insegnare solamente. Servono non solo i corsi di aggiornamento, ma anche svolgere un anno sabbatico (un anno di interruzione della didattica, ndr.), un dottorato, oppure, se possibile, svolgere altre attività. Anzi, chi insegna, più di chiunque altro, si deve rinnovare continuamente. Anche perché fare sempre la stessa cosa tutti i giorni, tutti gli anni, può diventare veramente una noia mortale. Questo non significa che tutti gli insegnanti debbano svolgere due attività come ho fatto io! Credo però che sia importante – come molti miei colleghi fanno – portare le proprie passioni tangibili nel mondo della scuola.
Ad esempio?
Per esempio, questa scuola ha una grande tradizione di teatro, che è un vero e proprio mestiere. E quindi credo che il travaso delle tue passioni nella professionalità all’interno del mondo della scuola sia importante, perché ritengo che la scuola debba orientare verso un lavoro – anche questa è una posizione molto netta, lo ammetto – o meglio, orientare verso il mondo degli adulti. E quindi fatico a concepire la cultura per la cultura. Secondo me la cultura deve servire ad aprirti a una professione, anche intellettuale ovviamente. Anche fare lo scrittore, significa, appunto, svolgere un mestiere. Dunque, la scuola deve essere utile a farti trovare un posto nel mondo, anche professionalmente.
Mi sembra che abbia abbastanza chiara l’idea di come dovrebbe essere un insegnante. Si ispira a qualcuno, magari?
(Ride) Eh, come no. Intanto c’è un insegnante che a me piace molto che si chiama Eraldo Affinati: ha scritto alcuni libri e uno di questi è stato finalista al Premio Strega. Il libro si intitola L’uomo del futuro, dedicato a Don Lorenzo Milani. Affinati ha aperto una scuola di insegnamento di base – che abbiamo tra le opzioni come PCTO nel nostro Liceo – la Penny Wirton, assolutamente privata ma gratuita per chi la frequenta e su base volontaristica per chi ci lavora. Vi lavorano insegnanti maturi e insegnanti giovani, l’uno accanto all’altro. Affinati, diciamo, condivide con me la passione della scrittura ma anche dell’apprendimento come servizio per chiunque. Ha fondato la Penny Wirton, che ammiro molto, cioè, ha fondato una scuola con una identità forte, frequentata da persone adulte che hanno bisogno di imparare la lingua italiana: extracomunitari, stranieri, rifugiati, o persone comuni. Mi piace molto anche Daniel Pennac, scrittore francese, che è stato insegnante per tantissimo tempo e che, tra l’altro, andava molto male a scuola. Ha raccontato la sua esperienza in un libro…
Diario di scuola.
Sì, Diario di scuola. Sulla copertina dell’edizione originale c’era la sua pagella, piena di insufficienze e, guarda un po’, Pennac è diventato uno scrittore affermato. Condivido con Affinati e Pennac la passione per la comunicazione. Penso che un insegnante debba essere prima di tutto un divulgatore intellettuale. Gli intellettuali che non comunicano sono dei pessimi insegnanti. Ma questo non so se potete scriverlo.
Poi lo sistemiamo.
(Ride) Se volete. Ma no, ditelo. Lo diceva spesso il professore universitario che abbiamo già menzionato, Tullio De Mauro, perché noi siamo un po’ tutti figli suoi: “noi” nel senso i miei compagni di studi, tra cui molti sono diventati illustri docenti, ma non solo. Nicola Mastidoro, ad esempio, ha lavorato fin dall’inizio con l’intelligenza artificiale ed è stato un gran pioniere. De Mauro aveva questo atteggiamento assolutamente comunicativo; è stato un intellettuale e un coraggioso ministro dell’istruzione; un uomo di intelletto, di cultura, di forza politica. Nel mio piccolo, ho cercato di seguire il suo esempio. Mi ha sempre convinto il fatto che le sue lezioni fossero stracolme di persone che si interessavano di argomenti molto tecnici: lui infatti insegnava linguistica, filosofia del linguaggio, argomenti molto settoriali, però il modo in cui presentava i temi li rendeva appetibili. E questo è il senso del perché noi insegnanti siamo qua.
Un’ultima domanda: per lei cosa sono i ragazzi, gli studenti?
Prima di tutto sono delle opportunità fantastiche. Si dice sempre che siamo noi – in quanto professori – che insegniamo, invece non è vero, siamo noi che impariamo. Perché pensate, voi potete imparare da uno solo, io invece posso imparare da settanta ragazzi che incontro ogni giorno. Questo lo dico senza spocchia: a scuola imparo tantissime cose. Imparo a svolgere meglio il mio lavoro, imparo com’è fatto il mondo, il che probabilmente mi sfuggirebbe completamente se non fossi in questo luogo. Insomma, i ragazzi sono delle opportunità. Certo, sono spesso dei rompiscatole… (ride).
In quanto ragazzi, confermiamo che è vero.
Siete rompiscatole perché siete persone che chiedono molto, il che non è necessariamente negativo, però non bisogna solo chiedere, ma anche dare. I ragazzi con i quali non sono a mio agio sono quelli che definisco viziati, persone abituate a prendere e non a dare. Per apprendere bisogna dare, mettersi in gioco, e anche scontrarsi, perché no? Ritengo che il conflitto faccia parte dell’insegnamento. E uso questa tecnica che ci ha insegnato Hegel: perché qualcosa cambi deve entrare in conflitto con sé stessa. Poiché la scuola è essenzialmente uno strumento di cambiamento, vorrei cambiare un pochino le persone che sono intorno a me, ma questo non può avvenire se non c’è una fase di conflitto, che Hegel chiama di “sofferenza”. Fa parte dell’insegnamento l’assumersi la responsabilità di discutere, confrontarsi, opporsi per migliorare.
Solo conflitto?
Dato che sono adulto, cerco di trovare il modo per superare il conflitto – si chiama “sintesi”. A volte non accade e mi è capitato di ritrovarmi in situazioni complesse con alcune classi, ma nella stragrande maggioranza dei casi accade e il conflitto porta a risultati interessanti e proficui per entrambe le parti. Dunque, evviva i coraggiosi.