Ritratto della professoressa Smeragliuolo.

di Sofia Liverani e Livia D’Amico, IF

Ogni giorno noi alunni incontriamo i nostri professori e passiamo buona parte del nostro tempo insieme a loro. Forse non molti di noi si sono chiesti quali vicende abbiano portato le nostre reciproche vite ad incontrarsi nelle classi del nostro liceo.

L’idea di intervistare i professori è nata a seguito di un corso che chi scrive ha frequentato, il cui tema era il rapporto tra docenti e studenti; l’intervento particolarmente interessante della professoressa Smeragliuolo, che descriveva la sua visione della scuola e degli studenti, ha suscitato il desiderio di capire per quale motivo gli insegnanti decidano di intraprendere tale carriera e il percorso che li porta a compiere tale scelta.

L’intervista che segue sarà la prima di altre che permetteranno di scoprire chi sono davvero le persone che ci guidano nella formazione e nella crescita personale. 

Incontriamo oggi la professoressa Anna Smeragliuolo, docente di latino e greco.

Professoressa Smeragliuolo, vorremmo iniziare chiedendole da quanti anni insegna e da quanto tempo in questo liceo.

La prima volta in cui ho messo da insegnante i piedi in un’aula è stato nel 2003. Poi ci sono stati anni in cui non ho insegnato e sono stata in congedo per studi post-univeristari. Insegno invece al Giulio Cesare dal 2019.

Anche la prima volta che ha insegnato, nel 2003, è stato a Roma?

No, è stato a Bologna. Scelsi quella città per curiosità, senza una vera e propria ragione. Le prime domande che facevo in graduatoria erano tutte motivate dal desiderio di andare lontano da casa.

Per Roma ha fatto lo stesso ragionamento?

No. A quel tempo stavo collaborando con l’università di Tor Vergata, e alla lunga aveva iniziato a risultarmi faticoso lavorare a Napoli, nella regione in cui vivono i miei genitori e dove io ho casa. La collaborazione era impegnativa e a un certo punto ho chiesto il trasferimento. In verità non avevo mai preso in considerazione di vivere a Roma nella mia vita; penso che una persona di Napoli sia abituata a considerare Roma dietro l’angolo, specialmente una persona come me, per cui io volevo andare più lontano. Roma era troppo vicina e probabilmente era per questo che non avevo mai ragionato sulla possibilità di viverci, pur ritenendo ora che sia distante al punto giusto dalla Campania: mi permette di vedere dalla giusta prospettiva il posto da cui vengo, in cui sono le mie radici, ma allo stesso tempo di non allontanarmene troppo.

L’intraprendere la strada dell’insegnamento è stata per lei una scelta consapevole, ma c’è stata una persona o un evento che l’ha influenzata?

L’amore per le discipline è stato il mio punto di partenza. Poi, tornando indietro nel tempo, io ho sempre visto nella scuola un importante punto di riferimento. Ho sempre creduto fortemente in essa e questo per me ha sempre significato molto. Ricordo che a un certo punto dei miei studi universitari, mentre preparavo degli esami, mi sono resa conto che non mi preparavo come se dovessi effettivamente sostenere degli esami all’università, ma immaginavo di insegnare quei contenuti in una classe. Stavo studiando per l’esame di greco, non ricordo se greco 1 o greco 2, ma portavo l’Elettra, e anziché pensare a studiarla per presentarla al mio docente, già pensavo: “Questa, a scuola, si potrebbe fare in questo modo!”. In realtà, non mi ero iscritta a lettere classiche perché avevo come prospettiva l’insegnamento: all’epoca non esisteva la facoltà di archeologia, quindi ci si iscriveva a lettere classiche anche per fare l’archeologo, carriera che avevo preso in considerazione.

E perché poi non ha intrapreso la carriera da archeologa?

Quando mi laureai, in realtà, avevo già fatto esperienza di lavoro sul campo in un museo archeologico, al MANN, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, con mia grande fortuna. Era uno di quei tirocini orientativi che si fanno verso la fine dell’università; mi sarei poi laureata su un gruppo d’iscrizioni dell’età del bronzo trovate, nello specifico, a Creta. Decisi di fare una scommessa con me stessa: se fossi entrata subito alla SSIS, la scuola per abilitazione per l’insegnamento, mi sarei dedicata a quello. Ma se non fossi entrata avrei invece continuato a lavorare sull’epigrafia. A dir la verità, alla fine ho fatto entrambe le cose, dando però priorità all’insegnamento. È quando ho incontrato l’umanità dei ragazzi che c’è stato un altro importante cambiamento, un altro amore. Adesso non sono più mossa tanto dall’amore, ancora immenso, per quello che insegno, quanto da quello che riguarda invece l’umanità e il calore dei miei alunni. Sento che oggi è quello a essere più importante, nel mio lavoro.

Definirebbe l’insegnamento una missione per aiutarli?

Non direi così. Non lo vivo come una missione, lo vedo come una professione per la quale mi sento portata. Per me vengono prima i ragazzi, poi le materie, è vero, però non mi sento affatto una missionaria. Questo è un argomento molto delicato, perché c’è chi crede fermamente che l’insegnamento sia una vera e propria missione, mentre io sento piuttosto di avere una vocazione pedagogica che ho scoperto solo in seguito, non sapevo di averla. C’è sicuramente continuità nell’amore per le mie discipline, ma la vocazione pedagogica ho scoperto di averla solamente dopo, quando ho incontrato per la prima volta i ragazzi, quando mi sono trovata in una classe e mi sono confrontata con essa. Ma nonostante io creda che debba essere protetto, ho sempre avuto un gran rispetto per lo studente. 

Per lei cosa sono gli studenti?

Un tesoro! Un vero tesoro. Nel lungo precariato che ho avuto, come quello di molte persone che si abilitano in Campania, ho lavorato anche in una scuola cattolica qui a Roma, ai Fratelli Maristi. Ricordo che una volta seguii un corso di formazione spirituale che l’istituto teneva perché credeva in una formazione non solo professionale, essendo una scuola privata cattolica. Essendo periodo natalizio, mi chiesero chi io vedessi nella capanna: io risposi che non vedevo Gesù bambino, vedevo la mia classe. Credo che per me l’amore e il sacro possano coincidere con una classe, perché sono qualcosa da proteggere, da far crescere, da onorare e soprattutto da rispettare. Io ho grande rispetto per gli studenti. Nella mia testa, lo studente e la scuola erano cose sacre, sì.

Allo stesso tempo essere insegnante è però una grande responsabilità.

Sono d’accordo.

Non teme di fare degli errori?

Sempre! Sempre! (ride, ndr.) Anzi, sono sicura di fare degli errori. Ogni giorno, a fine serata, mi domando quali siano stati gli errori che ho fatto. Ogni giorno mi metto a riflettere su dove ho sbagliato e devo ammettere che a volte è difficile convivere con gli sbagli, che si fanno sempre, è inevitabile. Ma mi dico “Dai, la prossima volta farò meglio”. E qualche volta mi dico anche “Sono stata brava”. Però diventare adulti significa anche questo, riuscire a capire, a riconoscere e soprattutto ad accettare ciò che bisogna migliorare della propria persona e ciò che invece ci piace. Qualche volta riconosco di aver fatto ciò che dovevo, ma qualche volta faccio la lista degli errori, che a volte possono anche fare male.

Ha detto di avere una vocazione, ma si ispira a qualche modello, magari di qualche insegnante che ha avuto?

Non credo, perché è vero, ho avuto un’ottima maestra, ma rispetto a voi io sono vissuta nell’Italia di grandi maestre; ho fatto le elementari in anni in cui, essendo io del ‘77, la scuola elementare italiana era studiata come modello d’eccellenza al di fuori del nostro paese. Ho fatto anche buone scuole medie, ma non credo di aver avuto altrettanto buoni docenti alle superiori, il che era un gran peccato, perché io ero già innamorata di quelle materie!

Ma forse sì, invece. Penso che abbiano lasciato una traccia nel mio insegnamento il metodo della mia maestra e il docente di storia greca che ho avuto all’università. Lì ho poi avuto la fortuna di trovare dei grandi modelli in tutto, il mio professore di letteratura latina, di filologia micenea – che è la materia in cui sono laureata – ma soprattutto il mio professore di storia greca. Lui forse è stato per me un modello. A lui sono debitrice di tanto, penso di non essermi persa nella vita grazie a lui, anche se non lo sa. Perché noi non siamo generosi con i professori: anche se ci salutiamo, scherziamo, è difficile, ci si vergogna di ammettere ad alta voce cose così intime, nel mio caso quanto sia stato importante per me. Io credo che mi abbia salvato nella vita, non solo per il lavoro.

Perché non è rimasta allora nel mondo dell’università?

Ho sempre riconosciuto di non essere tagliata per lavorare nell’ambiente universitario, ma dato che sono assetata di ricerca, è un mondo nel quale a volte faccio delle incursioni, diciamo così. Ma non sono tagliata per insegnare all’università, per la carriera universitaria.

Quindi non è per il rapporto diverso, rispetto a quello del liceo, che ha con gli studenti.

No, non è per gli studenti, ma per una questione di politica all’interno dell’università. Oggi certamente la situazione è cambiata rispetto a quella che ricordo, ma in ogni caso mi piace di più il mondo della scuola. Mi sento più a mio agio, sono proprio soddisfatta di dove sono. Probabilmente sono una delle poche persone che si trova nel posto in cui desiderava stare (ride).

Come si relaziona con i ragazzi? Ha detto che sono da rispettare e da proteggere, ma nel pratico come si sente di dover agire ?

Cerco di rimanere in ascolto, perché siete voi che mi fate capire come è meglio agire in ogni situazione; da voi imparo come muovermi e come sia meglio comportarmi, anche in base alle diverse situazioni. Cerco di rendermi conto delle differenze tra le classi e tra le persone che ho di fronte e cerco di essere il più possibile inclusiva. A volte riconosco di essere riuscita a intercettare alcune sensibilità, a volte no; per quanto io mi impegni al massimo per essere disponibile, non riesco sempre a intercettare tutti. Il mio obiettivo è quello, alla fine: essere inclusiva, aperta al confronto e al dialogo, e fare delle lezioni che siano ogni volta uniche, perché costruite insieme alla mia classe.

Come si comporta invece con gli ex-alunni?

Continuo a seguirli anche dopo il liceo, se fa loro piacere. Ormai ho alunni che sono medici, avvocati, che hanno figli… ma con i più giovani cerco di non fare più l’insegnante, perché mi devono metaforicamente “ammazzare” subito, voglio che diventino più bravi di me! Devo ammettere che con chi tra loro studia o ha studiato materie umanistiche all’università, proprio perché apparteniamo alla stessa “tribù”, tendo per affinità di interessi a rimanere maggiormente in contatto. Pretendo da loro che non mi chiamino più “professoressa” e che non mi vedano più come tale, ma alcuni proprio non ci riescono. Non è per deresponsabilizzarmi, al contrario, è perché credo che faccia male vedermi come docente anche dopo il liceo, perché si cresce se si mette in discussione anche quello che ti hanno insegnato. Per me, i momenti di maggiore crescita intellettuale sono stati quelli in cui ho litigato col mio insegnante preferito.

Può spiegarci il contesto?

(Ride) Va bene. Dovevo sostenere un esame di storia greca e tutti si aspettavano che avrei preso, come al solito, 30 e lode. Ero molto ansiosa quel giorno, perché avevo studiato tantissimo, ma non mi piacevano le domande che mi faceva il professore; mi ero innervosita, avevo delle aspettative molto alte ma allo stesso tempo avevo studiato davvero molto perché non mi credevo all’altezza dell’esame. Ebbi una discussione sulle domande e alla fine il professore mi propose un voto che non era nemmeno basso, 27, ma io risposi che volevo ragionare sull’eventualità di non accettarlo, e quindi me ne andai. Semplicemente non ero abituata a prendere in storia un voto così, insomma, avevo tutti 30 e lode! Era la prima volta per me. A dirla tutta, avevo paura di deludere quel professore che per me era tanto importante, ma allo stesso tempo mi sentivo addosso quest’ansia di tutti, che da me si aspettavano sempre il massimo. Ero un po’ nel panico, non capivo, mi sembrava di non essere me stessa, per cui andai di nascosto all’ultimo piano dell’università, presi il libro di storia greca, era di Salvatore Settis, e giurai a esso che nessuno si sarebbe messo mai tra me e la storia greca, nemmeno un professore a cui tenevo tanto, quale era lui. Alla fine scesi giù, accettai il voto, e un mese dopo feci un altro esame di storia greca a cui presi 30 e lode. Fui molto contenta, quella seconda volta, di essere stata più serena. Però, ad oggi, io so di aver fatto in modo da prendere 27. Prendevo sempre voti molto alti e tutti dicevano che ero raccomandata. Era questo è il motivo, erano gli altri. Però mi è servito. Piansi tanto, io con il libro di storia greca. 

Quindi lei, da studentessa, aveva l’ansia del voto?

Non solitamente, questa era una situazione particolare. Era la scuola di specializzazione all’insegnamento, per cui dai vari voti dipendeva la posizione in graduatoria; se non arrivavi ai primi posti, in particolar modo al sud, eri pressoché costretto a doverti trasferire, e in quel periodo della mia vita non volevo farlo. Quindi non si trattava di  un voto privo di conseguenze.

Possiamo dire che questo episodio è stato un “caso isolato”.

Sì, sì. Però ho sempre preso voti medio-alti,perché ho sempre studiato tanto; ma non ho mai studiato per il voto. Ma devo dire che alla mia epoca non si studiava per il voto a scuola. Si era abituati a prendere voti molto bassi, era la normalità; i nostri professori non mettevano voti alti. Ma non esistevano! La scala del professore non era da 0 a 10, il 10 non credo di averlo mai visto!

Quindi questi studenti che studiano per il voto, perché adesso si può raggiungere, come li vede?
Come li vedo? Eh, sono preoccupata. Sono preoccupata per voi, perché i voti devono essere una conseguenza, non un obiettivo. Anche se, come vi ho detto, mi è capitato nella vita di dover mirare a un voto e studiare in funzione di esso, io vi capisco anche. Quindi mi rendo conto che il sistema ha dei vizi, ed è un problema. Chiaramente, nelle mie classi non faccio come i miei insegnanti fecero con me e prendo come griglia quella completa, che va da 0 a 10, perché sono consapevole che ai miei alunni serve. Servono anche i voti alti, io questo lo so. Però lo studio è un’altra cosa. La conoscenza e la cultura non sono il voto, perciò cerco sempre di insegnare anche questo.

Di Sofia Liverani

II F, caporedattrice, prima paginista, articolista.

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