di Maria Stella Domenicucci, III B
The Game
“The Game” è il termine usato dai migranti in transito lungo la rotta balcanica per definire, con amara ironia, i numerosi tentativi di varcare i territori dell’Unione europea. È un “gioco” che si ripete molte volte, a fronte dell’impermeabilità e della massiccia militarizzazione della frontiera. Ma per entrare nell’Unione europea spesso non c’è altra scelta: ci si riempie lo zaino del necessario, ci si prepara psicologicamente a moltissime ore di viaggio e si inizia a camminare, nel buio della notte, attraverso le foreste di confine. Come succede nella maggior parte dei casi, i “giocatori in fuga” vengono individuati, spogliati dei propri diritti di esseri umani e rimandati indietro al punto di partenza.
“Abbiamo camminato per cinque notti ma poi ci hanno catturati e manganellati urlandoci addosso che non saremmo mai più dovuti tornare in questo posto,” dice Abed, pakistano, 43 anni.
“Ho perso il conto delle volte che ho fatto il gioco. Sono stato picchiato e derubato di fronte agli occhi dei miei figli. Siamo persone istruite e io vengo da una buona famiglia, veniamo trattati come animali dalla polizia croata,” dichiara Azam, 39 anni, afghano.
Sono solo alcune delle testimonianze raccolte dal corrispondente del Guardian Shaun Walker, riportate dal Collettivo Checkmate su “The Submarine”.
Le persone in movimento lungo il territorio bosniaco provengono principalmente dall’Asia meridionale — Pakistan, Afghanistan, Bangladesh e Sri Lanka — e dal Medio Oriente — per la maggior parte dalle aree del Kurdistan iraniano e iracheno e dalla Siria. Con numeri meno rilevanti, la rotta viene percorsa anche da uomini e donne provenienti dall’Africa, solitamente per la semplice ragione che il mare viene visto come un ostacolo troppo difficile da superare e la Libia un Paese estremamente pericoloso da valicare. I Paesi rappresentati sono Marocco, Algeria, Tunisia, Nigeria, Eritrea e, anche se in modo più esiguo, Congo. Questo gruppo eterogeneo di persone si trova a percorrere la direttrice Grecia-Albania-Montenegro-Bosnia-Croazia, che sembra aver rimpiazzato il tragitto che fino all’inizio del 2018 passava dalla Macedonia e dalla Serbia.
Insomma, pare che Lampedusa non sia l’unica porta dell’Italia per chi è in viaggio lungo le rotte migratorie. Benché sui giornali si parli quasi esclusivamente degli sbarchi in Sicilia, lontani dai riflettori dei media, a Trieste arrivano ogni giorno a piedi 50 persone, con un cammino impressionante alle spalle, appesi al labile filo del caso.
Casa Scalabrini 634
Casa Scalabrini è un progetto ASCS (Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo) a Roma, il quale ha come principali obiettivi la cultura dell’accoglienza, dell’incontro e dell’integrazione tra migranti, rifugiati e la comunità locale, seguendo l’invito di Papa Francesco a “fare chiasso”.
Sono entrata in contatto con questa realtà nell’arco delle vacanze pasquali, quando, insieme al mio gruppo scout, ho trascorso un paio di giorni a Casa Scalabrini, per prestare servizio nella struttura e cercare di capire un mondo molto diverso dal mio, privo di certezze, stabilità e privilegi. Il dialogo tenutosi con Claudio Oroni, membro dell’Area Accoglienza Integrale dell’associazione, ha portato alla luce in me ancora una volta la consapevolezza di non sapere niente di ciò che mi circonda, ma al contempo tanto desiderio di ascoltare, conoscere, approfondire.
Claudio, insieme ad altri membri dell’ASCS, lavora attivamente ogni giorno per diffondere le sue esperienze e, con l’intento di sensibilizzare i giovani su una tematica tanto attuale quanto poco nota, ci ha presentato “The Game”: un gioco di ruolo in cui è possibile mettersi nelle scarpe dei migranti e muoversi nello scacchiere di un’Europa Orientale densa di confini, trafficanti e scelte difficili da prendere. Questo laboratorio è frutto di un’esperienza vissuta in prima persona fisicamente lungo la Rotta da un gruppo di giovani dell’ASCS con il progetto “Umanità Ininterrotta”, da cui è nato l’omonimo libro edito da Seipersei nel 2020.
Abbiamo così trascorso due ore intorno a un tabellone raffigurante le diverse rotte migratorie note con il generale titolo di “Rotta dei Balcani occidentali”, utilizzando come pedina da gioco il profilo di una delle tante persone che gli ideatori avevano effettivamente conosciuto durante il loro viaggio. Figuravano tra queste donne con bambini piccoli, difensori della propria libertà di culto, abitanti di paesi in guerra e molte altre categorie di gente che, per necessità, si era trovata costretta ad intraprendere un viaggio clandestino verso l’UE. Ognuno con esigenze ed obiettivi diversi, ognuno con una precisa rotta da intraprendere, ci siamo imbarcati in un gioco dalle regole piuttosto ambigue, che per la prima volta non avrebbe avuto né giustizia, né vincitori né vinti.
Perché “sommersi e salvati”?
Ho avuto la fortuna di accompagnare la mia permanenza a Casa Scalabrini con la lettura integrale de “I sommersi e i salvati” di Primo Levi, proposta dal mio docente di Filosofia e Storia nello stesso arco di tempo. Mi sono resa conto che, più in quei giorni ascoltavo testimonianze e svolgevo attività, più mi riusciva facile e quasi spontaneo esumare amari parallelismi tra una società passata, omertosa quanto basta per essere considerata artefice del fenomeno Lager, ed una società odierna, silente, immobile di fronte agli eventi che la circondano.
Nel secondo capitolo de “I sommersi e i salvati”, dal titolo “La zona grigia”, Levi parla dell’intrinseca tendenza umana alla “semplificazione”.
“In chi legge (o scrive) oggi la storia dei Lager — afferma — è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di dividere il male dal bene, di poter parteggiare, di ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti, là i reprobi”.
Analizza lo spazio che intercorre tra vittime e persecutori, tra bene e male: la cosiddetta “zona grigia”. Questa, composta da oppressi che collaborarono con il potere, è variegata da infinite sfumature e motivazioni: terrore, adescamento ideologico, viltà, imitazione pedissequa del vincitore ecc.
Mi pare più importante, però, soffermarsi su quanto scrive poi:
“Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni prigionieri a collaborare in varia misura con l’autorità dei Lager, occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale. Deve essere chiaro che la massima colpa pesa sul sistema… il concorso alla colpa da parte dei singoli collaboratori grandi e piccoli (mai simpatici, mai trasparenti) è sempre difficile da valutare”.
La questione della criminalità legata ai migranti che giungono in Europa è un argomento caldo nella retorica politica degli ultimi anni. C’è in questo paradigma un vizio concettuale ben preciso: che il migrante sia propenso alla criminalità, quasi questa fosse un fatto connaturato alla sua persona, e che pertanto vada espulso, punito o rifiutato con ogni mezzo.
Le organizzazioni criminali negli Stati dell’Unione Europea, quelle che si nutrono della manodopera di giovani immigrati, delle braccia di minori che per qualche motivo non si sono inseriti nella legalità, dei corpi di donne incatenate contro la propria volontà alle condizioni del lavoro sessuale, ci mostrano un ecosistema sociale alternativo a quello legiferato e statalizzato, fondato sulla distribuzione dei compiti, sulla separazione dei ruoli e sull’inserimento dei cittadini in un tessuto sociale. Nelle viscere dello stato risiedono altri microstati, che conoscono proprie leggi, non scritte, e altri modi di fare giustizia. Non sono microstati di diritto, ma di forza. Potrebbero ricordare il microcosmo del Lager, che al suo comportava una regressione, riconduceva a comportamenti primitivi, istituiva un nuovo linguaggio ed era quello della violenza come veicolo dell’ordine e dell’obbedienza.
Nella maggior parte dei casi si tratta di uomini e donne che scivolano nell’irregolarità alla scadenza del permesso di soggiorno, o che giungono irregolarmente in Europa senza riuscire a inserirsi in nessuna via legale. In Italia, con la legge Turco-Napolitano prima e con la Bossi-Fini poi, l’ottenimento di un permesso di soggiorno è stato vincolato al lavoro effettivo dello straniero presente sul territorio. Eppure, la congestione della burocrazia italiana rende l’emersione dal lavoro nero una procedura quasi impossibile. Nel 2020, il Governo italiano ha approvato il decreto-legge n. 34/2020, noto come “decreto rilancio”, il cui art. 103 ha introdotto una finestra temporale per la regolarizzazione dei cittadini stranieri senza permesso di soggiorno che si trovavano già in Italia all’8 marzo 2020. A marzo 2021, a livello nazionale, sono state registrate 207mila domande di emersione, ma di queste soltanto 1.480 sono giunte nella fase conclusiva: lo 0,7% del totale. Una tale congestione della macchina statale rende la via criminale e illegale un’alternativa concreta, da scegliere per non morire di fame.
Quanto, dunque, è effettivamente corretto esprimere giudizio morale su questi individui se “le privazioni a cui erano sottoposti — cito Levi — li hanno condotti ad una condizione di pura sopravvivenza, di lotta quotidiana contro la fame, il freddo, la stanchezza, le percosse, in cui lo spazio per le scelte era ridotto a nulla”?
All’interno del libro è poi discusso un altro macro-tema, quello della “vergogna”, una vergogna intesa come senso di colpa, da parte dei superstiti, per la propria impotenza nel concorrere alla salvezza altrui. È in quella trattazione che, per la prima volta, viene effettuata la distinzione tra i “sommersi” e i “salvati”, una distinzione che non vede criteri meritocratici, non segue principi di giustizia, ma anzi, più spesso, predilige “i peggiori, cioè i più adatti”.
È la stessa sorte proditoria che accompagna i partecipanti di “The Game” lungo il loro viaggio per la salvezza, ed è autoesplicativa in questo senso la foto di Alan Kurdi che nel 2015 intasò la rete web, suscitando sgomento e destabilizzazione. Il bambino, a soli 3 anni, perse la vita in un naufragio di fronte alla costa turca nel tentativo di raggiungere la salvezza in Europa e la reazione dei più fu proprio l’incapacità di accettare come l’innocenza di un bambino così piccolo possa esser stata canonizzata dalla sorte nella categoria dei “sommersi”.
Levi parla poi delle dissonanze linguistiche che rappresentarono la principale barriera per la comprensione del fenomeno Lager, della sua struttura interna e della sua organizzazione da parte del deportato straniero (quindi né tedesco né polacco). Parla di “un film in grigio e nero, sonoro ma non parlato”, in cui i nuovi sordomuti erano destinati ad annegare nel mare tempestoso del non-capire. Così non intendevano gli ordini, ricevevano schiaffi e calci e non riuscivano a comprenderne il perché.
Grazie ad un’altra esperienza con il mio gruppo scout a Siena, sotto Natale, ho avuto modo di provare sulla mia pelle la difficoltà nel relazionarmi con minori giunti da poco in strutture di accoglienza per immigrati sotto i diciotto anni. Fatta eccezione per chi fosse giunto in Italia da più di tre anni ed avesse frequentato scuole serali per imparare la lingua locale, la sensazione di impotenza nel capire e nell’essere capita ha troncato ogni possibile tentativo di dialogo. Mi sono ritrovata a dover gesticolare in modo infantile e ad usufruire della cortesia di una volontaria che, con molta pazienza, ha provato a tradurmi quanto potesse di albanese, afghano o egiziano.
Questa barriera ha riguardato l’impatto con un’Italia pronta all’accoglienza ed all’integrazione, ma analoghi, seppur più crudeli e violenti, sono i casi di smarrimento e confusione che caratterizzano gli incontri con i militari nelle zone di confine.
In questo contesto emerge l’ultimo ma non meno importante punto di contatto con la riflessione dello scrittore sulla realtà nazista, ed è quello legato alla “violenza inutile”.
Citando Levi, “In Lager si entrava nudi: anzi, più che nudi, privi non solo degli abiti e delle scarpe (che venivano confiscati) ma dei capelli e di tutti gli altri peli… Ora, un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme. Gli abiti, anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo. Sa che potrà essere schiacciato ad ogni momento… Non era dunque una questione di risparmio, ma un preciso intento di umiliare.
Riporto allora la storia di Umar (pubblicata in formato video dalla UNHCR), un richiedente asilo proveniente dal Pakistan, il quale durante una missione a Trieste ha testimoniato la sua esperienza alle mani della polizia croata:
“Ho sofferto violenza da parte della polizia croata molte volte, due volte mi hanno bruciato le gambe. Sono stato arrestato. Attraversavo il confine su Road Number 1. Subito dopo il confine abbiamo trovato le forze speciali. Non erano militari, ma forze speciali di polizia, avevano un’uniforme nera, mi hanno fermato. Ero insieme ad altre 10 persone, prima ci hanno picchiato e poi ci hanno portato in una stazione di polizia. Di notte mi hanno bruciato la gamba, portandomi in una stanza speciale, e mi hanno fatto un’iniezione per addormentarmela, ma non ha funzionato. Mentre mi bruciavano hanno preso una polvere bianca e me l’hanno messa sulle bruciature, non so bene cosa fosse. La mia pelle si è riempita di vesciche, ho pianto e ho urlato, ma loro hanno continuato a picchiarci. Alle due del mattino ci hanno rimandato al confine, nevicava, a terra era pieno di neve. Si sono presi le nostre scarpe e i nostri vestiti e nudi ci hanno rimandato dall’altra parte del confine”.
La crudele usanza di privare i migranti della loro facoltà di camminare — unica azione in grado di assicurare loro un futuro e la sopravvivenza alla Rotta — con il gesto simbolico della requisizione delle scarpe o delle ustioni agli arti inferiori, è una delle tante manifestazioni con cui l’uomo nella condizione di potere esercita il suo desiderio gratuito e disinteressato di umiliare. È la stessa brama di violenza con cui le SS, mezzo secolo prima, riducevano gli uomini a “lombrichi”, a “prede inermi”.
Ancora una volta, nella storia, l’uomo perde un tassello. Vive nella sua condizione di fortuna, nel contesto in cui è stato concepito, oscurando una lezione fondamentale, che già Seneca, nell’epistola 47, forniva con una chiarezza esemplare ed attualizzabile:
Si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae.
Se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. (Epistola 47,1)
Siamo frutto del caso, a determinare la nostra condizione non è nient’altro che questo. Porto la mia carta d’identità nel portafoglio ogni giorno e non mi rendo conto di quanto quel singolo documento sia fondamentale per migliaia di immigrati resi clandestini dalla necessità. In questi ultimi mesi ho avuto l’occasione di confrontarmi con volontari, direttori di centri accoglienza, avvocati esperti del settore, ed ogni singola conversazione ha ravvivato in me la gratitudine per essere nata in una realtà dove non mi è richiesto lottare per trovare pace, professare il culto che preferisco, indossare ciò che voglio, avere un’istruzione.
La lettura de “I sommersi e i salvati” in simultanea alla mia esperienza a Casa Scalabrini 634, senz’altro, è stata utile per riesumare l’interrogativo prefissato da Levi nella prefazione del libro: “Quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà più, come la schiavitù ed il codice dei duelli? Quanto è tornato e sta tornando? Che cosa può fare, ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata”?