Luca Gentilucci, II D
È noia ciò che provo, solamente noia. La staticità, la monotonia, il susseguirsi di caratteri sempre uguali tra di loro, incolonnati alla perfezione, caratteristica tipicamente aliena alla figura umana. Siamo imperfetti noi, complementari come Agilulfo e Gurdulù. La diversità ci rende interessanti, la noia ci uccide.
La scoperta arriva solo conseguentemente ad un movimento, ad un’azione, che sia fuga o quête. Sono un odiatore della noia! E neanche un gran lettore. Ma nel momento in cui la lettura mi fa apprezzare la mia grande nemica capisco che il libro mi piace. L’analisi, le sequenze descrittive, la cura nei dettagli che Zafón mette nei suoi passi mi porta se non altro ad ammirarlo. Sento che nel mio modo di scrivere manchi esattamente quello: la noia, intesa come il parlare bene delle futilità, o almeno ciò che io reputi tali. Sicuramente nel mio ruolo di ladro dallo scrigno dello scrittore spagnolo rubo questo. Calvino, invece, annulla il tempo. Raccontando una storia ambientata all’incirca un millennio fa, descrive un uomo, una società che non ha mai vissuto…la generazione di cui sono figlio, che preferisce l’istante, la velocità, l’impressione, la compressione di infinite informazioni in un solo click, perdendosi spesso ciò che si trova sotto l’armatura. Una coscienza non tangibile, necessaria, esistente, al contrario di ciò che suggerisce il titolo: proprio perché credo che la vera inesistenza di cui parla Calvino risieda nell’armatura, una volta che ciò che la regge si dissolve, e non nella coscienza stessa, che è addirittura in grado di scatenare il sentimento che ci rende ciò che siamo, come lo definirà la narratrice, ovvero l’amore.
Credo che il libro di Calvino, più di quello di Zafón, non da apprezzare meno per la descrizione delle scene e la gestione dei momenti di tensione, in grado di catturare l’attenzione anche dei lettori più svogliati come me, apra una voragine che tocca oggi più che mai ogni suo lettore. Il contatto con i sentimenti che trasmette la lettura, l’immedesimazione e la consapevolezza innescano il processo sinonimo di vittoria per uno scrittore: il ragionamento. Gli spunti erano molteplici, sia ne Il principe della nebbia sia ne Il cavaliere inesistente: l’amore, usato come certificato di identità; la ricerca continua, senza il perseguimento dell’obiettivo, tipico elemento della tradizione cavalleresca; la morte, trattata da entrambi gli autori in maniera differente. Zafón emette una melodia riconoscibile per le nostre orecchie, immergendosi – a mio parere – nell’immaginario che tutti quanti associano al concetto di morte: cupa, spettrale, macabra, misteriosa, lenta, sporca. Con Calvino entriamo in una dimensione spirituale, religiosa, quindi perfettamente in linea con il contesto culturale in cui è ambientata la storia. Tanto che fatico a chiamarla morte, poiché nemmeno l’autore la definisce tale. Arrivare al lettore anche solamente tramite uno dei temi citati per me basta per raggiungere l’otium che, a differenza degli antichi, concepisco come il piacevole pensare, a opera conclusa. La mia visione, probabilmente ancora acerba, mi porta a vivere la lettura come noia, nella quale si può apprezzare solo la bravura dello scrittore. Associo quest’ultima figura a quella del paleontologo, che deve essere bravo a scoprire lo scheletro di ogni creatura. La carta di un libro può far male, a prescindere dal suo contenuto, il quale è necessario sia disposto della sufficiente carica per liberare la lacrima, che al contatto con il polpastrello, evita il taglio.