di Sofia Liverani, I F
Dallo scorso numero del nostro giornale abbiamo iniziato a pubblicare una serie di interviste il cui scopo è conoscere meglio i nostri insegnanti, comprendere per quale motivo abbiano intrapreso tale carriera e il percorso che li ha portati a compiere tale scelta, cercando di scoprire chi sono davvero le persone che ci guidano nella formazione e nella crescita personale.
Incontriamo oggi il professor Emanuele D’Ascenzo, docente di inglese.
Professor D’Ascenzo, come forse già sa, l’idea di intervistare i professori è nata seguendo un corso della Prof.ssa Smeragliuolo, in cui si parlava del rapporto tra l’alunno e il professore, spingendoci a capire effettivamente per quale motivo gli insegnanti scelgano questa professione.
Questi personaggi mitologici, metà uomo e metà voti…
Vorremmo iniziare chiedendole da quanto tempo insegna e quando è arrivato in questo liceo.
Dunque, questo è il mio decimo anno di insegnamento e io sono arrivato l’anno scorso; quando ci siamo conosciuti, ero appena arrivato qui.
Siamo la sua prima classe in questo liceo?
Sì, voi e i vostri compagni delle altre classi in cui ho iniziato ad avere un corso.Come ho detto, ho iniziato a insegnare dieci anni fa. Il percorso dell’insegnamento negli anni muta continuamente, per motivi organizzativi ministeriali. Il reclutamento degli insegnanti ha cadenza quadriennale, o quinquennale; a volte cambia, non perché cambino i prerequisiti, ma perché cambia il modo in cui si diventa docenti di ruolo. Quando io mi sono abilitato per l’insegnamento, anni fa, c’era un percorso che ti preparava a fare l’insegnante, un lavoro per il quale è importante avere non solo le conoscenze, che sono alla base di quello che poi ci raccontiamo in classe, ma anche delle abilità e competenze specifiche, pedagogiche, psicologiche; non facciamo ovviamente gli psicologi, però una certa dimestichezza con il capire come funziona l’interazione tra di voi, tra voi e noi, che apparteniamo a generazioni diverse, è importante. Bisogna essere in grado di gestire le dinamiche all’interno di un gruppo ampio, in cui ci sono più personalità diverse che hanno in comune il fatto di essere studenti; e da questa parte della cattedra sei solo, talvolta si è in due quando abbiamo le ore di compresenza. È importante saper gestire i conflitti, ma anche i momenti piacevoli insieme, senza forzarli. Poi se sei bravo o meno questo non lo decide qualcuno, ma lo vedi dal feedback che ti rimandano gli studenti. Next question?
È sempre stato un suo desiderio insegnare?
No, nel senso che non è qualcosa che è arrivato subito. Tu magari inizi il tuo percorso dopo l’università con un’idea di cosa fare in mente, ma non sempre riesci a realizzarla subito. Pertanto molti dei miei colleghi vengono da altre esperienze lavorative. Molte persone – ma questo è un mio pensiero – che hanno una formazione classica hanno come aspettativa quella di insegnare, magari al liceo classico, che è la cosa più bella che in questo caso potresti fare, perché hai la possibilità di restituire tutto quello che hai imparato. Personalmente io non mi aspettavo questo. Per me è stata un po’ una sorpresa iniziare a fare questo lavoro, perché quando ho finito l’università e ho iniziato a mettermi in gioco nel campo lavorativo non ci avevo nemmeno pensato. Invece poi è successo per davvero, e non gradualmente. Per alcuni anni ho lavorato nel settore della traduzione e dell’adattamento, del sottotitolaggio, e pensavo che avrei continuato a farlo; poi però è arrivato l’insegnamento e ho capito che la strada era questa.
Come ci è arrivato?
Quando ti inserisci nel sistema per cui ti reclutano come insegnante, devi avere ovviamente dei requisiti: devi essere almeno laureato, avere delle specializzazioni, dell’esperienza. Io ero in questa graduatoria, quando un giorno mi arriva questa telefonata: “Ma lei è il Professor D’Ascenzo?”. Ho pensato che fosse un amico che mi stesse facendo uno scherzo; e invece no, era proprio il provveditorato che mi chiamava, e da lì ho iniziato. Pensavo che si sarebbe poi fermata all’essere un’esperienza occasionale, invece mi ha catturato completamente, è stato come da zero a cento, perché la scuola ti prende davvero tanto. Molti non lo pensano, ma è proprio così. Ieri ho fatto mezzanotte per preparare i vostri libri e compiti, per esempio. Quando ho iniziato a fare questo lavoro, il tempo per fare il resto ovviamente non c’è più stato, e lì devi prendere una decisione: se questa è la strada, la percorri. Quell’altra non l’ho abbandonata, mi piace ancora interessarmi del mondo multimediale, di cinema, di ciò che mi appassiona.
Quindi lei lavorava nel settore della traduzione, delle lingue.
Sì, io sono laureato in traduzione letteraria e tecnico-scientifica e ho un master in traduzione specializzata. La mia tesi di master era nel campo multimediale, quindi per un periodo, dopo il master, ho iniziato a lavorare proprio nel campo dell’adattamento della traduzione e del sottotitolato. Quando si è ragazzi, poi, si fanno molti altri lavori: io, per esempio, ho lavorato nel settore turistico, nel settore terziario in generale. Dopo qualche anno, mi è arrivata la chiamata, quindi il destino mi ha voluto qui. Proprio il destino, in quel caso: credo che ci sia stato un sovrapporsi di casualità che mi ha portato qui. Quando ci si mette nella condizione di voler fare questo lavoro, è logico che prima o poi arriva, ma da quella chiamata fino ad ora ho fatto due corsi di specializzazione da insegnante, certificazioni e tante altre cose per migliorarmi come persona e soprattutto come docente, perché se ti fermi come professore invecchi. Tutto quello che arriva adesso è per voi: da internet, dall’esterno, tutti gli input sono veicolati verso di voi; quindi, se stai dall’altra parte, devi comprendere quale sia il trend, dove stiamo andando. Se fai lezione solo aprendo il libro e limitandoti ad esso, diventa noioso, per voi ma anche per noi. Bisogna mettersi in gioco per imparare come funziona tutto il circo, tutta la macchina che è la scuola.
Tempo fa ci ha raccontato che per la sua tesi ha lavorato anche su Shakespeare.
È vero, durante i miei studi mi sono trovato a scrivere la tesi su alcuni testi, ho tradotto alcune parti di saggistica riferiti a Shakespeare e a Hamlet, proprio in chiave multimediale, ovvero su come Hamlet sia stato adattato per il cinema, per la tv.
Quindi sempre nell’ambito della traduzione.
Sempre nell’ambito traduttologico, della riflessione sulla traduzione, di ciò che è inerente ai translation studies: perché si traduce, come si traduce, le scelte che si fanno; tradurre è una scienza ed è importante saperlo fare con attenzione e consapevolezza. Alcuni miei amici e colleghi sono traduttori, è un bel lavoro, ma devi essere abituato a stare molto da solo. Forse il motivo che mi ha fatto virare sul lavoro dell’insegnante è che a me piace davvero stare con le persone; rimanere da solo per ore di lavoro, in silenzio, davanti al computer, non fa per me che sono una persona molto attiva.
Quindi l’elemento umano è stato sicuramente importante anche per convincerla a scegliere questa professione.
È l’elemento più importante.
Nonostante siamo ragazzi?
Certamente, perché innanzi tutto stare con i ragazzi ti mantiene attivo, ti mantiene il cervello sveglio, ti porta necessariamente a dover ragionare in fretta, soprattutto con un gruppo di persone. Quando hai a che fare con tante persone devi essere in grado di prendere decisioni in maniera molto veloce, saperti organizzare bene – io su quello ci sto ancora lavorando. Quando vedi i professori che guardano sempre l’orologio, è perché si stanno organizzando la lezione, segmentando l’ora che hanno a disposizione in base a quello che c’è da fare; ti prefiggi un obiettivo e cerchi di rispettare i tempi, altrimenti il resto ti sommerge. Devi evitare i tempi morti; infatti è per questo che impazzisco quando non si riesce a far funzionare il computer o la LIM, perché so di star perdendo minuti preziosi.
Per lei che cosa sono i ragazzi, gli studenti? Come li vede?
Potrei uscirmene con la frase facile “Sono il futuro!”, e sicuramente lo sono. Di certo i ragazzi non sono qualcuno nella cui testa tu riversi le conoscenze tue o quelle che prendiamo dai libri. I ragazzi sono persone, ognuna con la sua vita, con i suoi problemi, con le sue necessità e con i suoi bisogni formativi, quindi tu devi saper entrare in empatia con loro. Anche se io non ho un approccio subito confidenziale, non vuol dire che io non tenga ai miei studenti. Con i ragazzi si stringe un legame di fiducia, di affetto, perché si trascorre molto tempo insieme; sono tutte piccole realtà con le quali ti devi interfacciare e che a volte, se c’è un problema da risolvere, non ti fanno dormire la notte. Voi pensate che mi diverta a mettere i voti bassi, mentre io so benissimo che quando metto un voto molto basso bisogna capire perché succede e come aggiustare il tiro. È logico che non siete un numero, non siete un voto, non siete una valutazione – anche se la valutazione è importante perché a voi serve sapere come state procedendo e anche sapere cosa si può fare. Però questo è lo spirito con cui devi fare questo lavoro.
Quindi per lei è unicamente un lavoro oppure…
Oppure una missione? Secondo me sta un po’ a metà. È il tuo lavoro e tu lo devi fare in modo professionale, ma in che cosa consiste? Da una parte nel far sì che voi raggiungiate il vostro successo formativo e scolastico; dall’altra parte è necessario essere in grado di capire che si hanno davanti persone con problemi, con realtà e con gioie differenti, in molti modi diversi di essere felici o meno. Se per missione intendiamo obiettivo, questo obiettivo è far sì che i tuoi studenti abbiano un percorso scolastico soddisfacente, che ricorderanno – spero – come io ricordo il mio. Io ho bellissimi ricordi di scuola, con alti e bassi, ovviamente, e vorrei che fosse così anche per loro; vorrei che, guardandosi indietro, pensino, un giorno, che sono stati cinque anni pesanti, in cui hanno studiato tanto, si sono impegnati, ma sono stati bene. Quindi una missione sì, ma non nel senso comune. Anche se poi c’è stata la “chiamata” (ride, nrd.), per cui… può darsi.
Ha avuto una figura di riferimento che l’ha ispirata?
Non tra le mie insegnanti, non credo di essermi ispirato a qualcuno in particolare di scuola. Ci sono state varie figure tra i miei docenti universitari o di corsi che ho seguito, però non una in particolare, perché ho cercato di prendere il meglio un po’ da tutti. Il tuo “stile” di insegnamento lo forgi in questo modo, secondo me, perché non ti puoi affidare soltanto a un’unica strada, devi essere critico nei confronti dei vari approcci, modellare il tuo stile di insegnamento anche sulla base dell’audience, cioè, nel mio caso, voi ragazzi. Dunque non credo ci sia stata una figura che mi ha ispirato particolarmente, ma è anche vero che a sedici anni non hai ancora la maturità per capire che cosa farai dopo, io ci ho messo un po’ a capirlo. E poi penso di essere molto cambiato negli anni come insegnante.
Perché?
Già nel fare esperienza, si cambia. Comprendi come interagire con i ragazzi, valuti quali considerare le cose più importanti, quali meno, selezioni quello che serve e scarti il superfluo. Nel tempo inizi a capire quello che è veramente utile a voi studenti, quello che vi rimane: la battuta, il modo di trasmettere le cose in maniera un po’ meno tradizionale.
Ne ha già avuti di ex alunni che tornano a trovarla?
Sì, quest’anno sono venuti i ragazzi della terza dell’anno scorso. Anche quando ero nella scuola precedente mi è capitato di incontrarne un po’; poi c’è stato il covid e le scuole sono diventate luoghi asettici.
Dove insegnava?
Prima di venire qui ero in un liceo a Tivoli e, prima ancora, quando non ero di ruolo, ho girato varie scuole.
Ha paura di sbagliare?
Sempre. Sicuramente gli errori si fanno. Ma per sbagliare cosa intendi?
Per esempio provocare nello studente un disinteresse per materia oppure un rifiuto.
Arrivi a un certo punto in cui comprendi che non puoi piacere a tutti. Magari il tuo metodo, il tuo approccio non piace a qualcuno; c’è chi preferisce un metodo più rigido, chi invece vorrebbe fare lezione all’aria aperta tutti i giorni. Bisogna sempre mettere in conto che si possono fare degli errori, ma ci sono delle cose su cui non puoi sbagliare, per esempio su come ti relazioni ai ragazzi davanti a un problema o in situazioni un cui tu sai che il tuo lavoro ti obbliga a fare alcune cose, a rispettare certi programmi. Sbagliare comunque dà l’opportunità di ricordare lo sbaglio e di fissare ancora meglio nella mente l’errore e quindi la soluzione.
Rispetto ad altri metodi di insegnamento, come è arrivato al suo?
Come dicevo prima, col tempo, provando; provi sempre, come gli attori. Peccato che durante le prove ci siate voi presenti (ride). Cerchi di capire se quell’approccio funziona e ti regoli in base ai feedback che ricevi. Come i comici che fanno le serate di prova per vedere se una cosa fa ridere e poi, quando è tutto pronto, fanno lo spettacolo. Trovo sempre interessanti le interviste agli attori e ai comici, perché effettivamente il loro lavoro è simile al nostro: ci si trova davanti a un pubblico di persone che ascolta – sempre venti o trenta contro uno – quindi bisogna avere il fegato di andare sul palco, la predisposizione. Ovviamente conta anche com’è la tua personalità, lo stile te lo vai poi creando: in base a quello che hai studiato pian piano ti prepari i tuoi blocchi, le tue lezioni, i tuoi percorsi che sai già che sicuramente funzionano; però li devi anche adattare in base alle classi. E ogni anno provi qualcosa di nuovo.
Se non avesse fatto l’insegnante, che cosa avrebbe fatto?
Non lo so, me lo chiedo spesso, però negli ultimi anni non ho trovato una risposta. Prima mi vedevo continuare a lavorare nella traduzione, nella linguistica in generale, ma ci sono stati anche altri lavori che mi sono piaciuti, come nel turismo. Oggi però non riesco a pensare di non fare ciò che faccio. Forse sarei fuggito in qualche posto esotico e avrei aperto un bar (ride). Forse avrei fatto il musicista, quello sì, però se ci avessi messo più impegno; la musica un conto è pensarla come lavoro, e quindi con delle regole, con degli obiettivi, e un conto è pensarla come parte della vita e abbracciarla così, per divertimento. Magari sarei diventato una famosa rockstar.
Lei suona uno strumento musicale?
Suono la batteria da tanti anni. Mi piace fare tante cose, tra cui questa. E sono tutte cose che in realtà ti porti nel lavoro: più cose interessanti fai, più hai da raccontare, anche in classe.
Ricordo quando ha spiegato i pentametri giambici con le note, l’anno scorso.
La metrica è ritmo, la musica la conoscono tutti e allora attraverso di essa trovi il modo per spiegare come funziona il pentametro giambico e farlo capire meglio.
Cosa l’ha spinta a scegliere il Giulio Cesare come scuola?
Uno non ha una vastissima scelta quando prova a spostarsi fra le varie scuole. Sicuramente volevo lavorare a Roma, avevo fatto già esperienza in tante scuole e volevo fare un programma di letteratura dignitoso. Questo liceo era una delle scelte possibili, quindi, quando effettivamente c’è stata la possibilità di insegnare qui, sono stato contento, perché sapevo che avrei trovato studenti volenterosi e insegnanti molto molto bravi. Ho trovato colleghi molto preparati e simpatici.
Aspettative per il futuro?
Sicuramente il riuscire a continuare il percorso con tutti gli studenti, e poi introdurre sempre qualcosa di diverso, di nuovo, perché vorrei aggiungere molte novità anche ai programmi; l’aspettativa è di quella di prepararvi ancora di più.
E continuare sulla strada dell’insegnamento.
Altrimenti c’è sempre l’alternativa del chiosco sulla spiaggia o la famosa rockstar. Ci rifletterò su queste tre cose: scuola, chiosco o rockstar.
Testa o croce?
Le opzioni sono tre, meglio tirare un dado.