di Stefano Subioli, III G
Ghetto Ebraico, oggi
Vicino alle sponde del Tevere, fiume testimone di tutte le tragedie avvenute nella Città Eterna, ci sono le viuzze strette e pittoresche del ghetto ebraico, i cui tetti fanno compagnia alle alte e antiche colonne del portico d’Ottavia; numerosi locali graziosi e vivaci riempiono quelle stradine, favorendo una piacevole atmosfera. Decenni fa però quei vicoli ora così allegri sono stati testimoni di un qualcosa di terribile, che ha lasciato per sempre un segno indelebile nella nostra città.
Ghetto Ebraico, 15 Ottobre 1943
Era un uggioso giorno d’autunno, il clima che si respirava nel ghetto non era dei migliori, il risarcimento in oro imposto dal Terzo Reich pochi giorni prima aveva messo in grave difficoltà le famiglie ebree. Il timore che il loro destino andasse incontro a una fine tragica si faceva sempre più forte. Quell’incertezza sulla propria sorte, lontana dalla speranza in un possibile domani di pace e senza sventure, si faceva più straziante di giorno in giorno.
Diverse voci sul conto di un possibile rastrellamento del ghetto si facevano sempre più frequenti, tanto da raggiungere le orecchie della signora Celeste. Quest’ultima, senza un attimo di esitazione, in un batter d’occhio giunse nei pressi del Grande Tempio, informando tutti della temibile notizia. Sfortunatamente, la reputazione della signora Celeste non era delle migliori, anzi, veniva perfino considerata folle dai suoi vicini, perciò nessuno le diede ascolto e proseguirono con la loro routine quotidiana, erano ormai tutti in procinto di consumare la propria cena, ignari del fatto che quella, probabilmente, sarebbe stata l’ultima.
Ghetto Ebraico, 16 Ottobre 1943
Il mattino seguente, il canto degli uccelli che svolazzavano sulle acque del fiume romano venne spezzato da improvvisi rumori di sparatorie. L’intera città si risvegliò con suoni di grida e panico: i Mamonni, così venivano definiti i soldati Nazisti, fecero violenta irruzione nelle case con la stella di David. Nel Ghetto regnava il terrore, i “rascianím jobertín“ per strada acciuffavano senza pietà donne, bambini e anziani senza concedere loro un ultimo saluto. Intere famiglie ebree, nel mezzo di spaventose urla di dolore e terrore, vennero con la forza trascinati e gettati come stracci umani sopra dei camion, neri e cupi come la loro pietà. Madri disperate tentavano di fuggire con i loro bambini sul grembo, in lacrime li affidavano a chiunque incontrassero per le strade invase dai soldati. Ogni secondo che passava in più in casa poteva essere fatale, non c’era tempo, la tensione era alle stelle. Vari passanti romani cercarono di salvare più bambini possibili per allontanarli dagli occhi indiscreti dei Nazisti, proteggendoli da quello scenario di terrore e da una morte certa. Alcuni si salvarono, come coloro che eran affetti dal “Morbo di K”, malattia inventata dal primario del Fatebenefratelli sull’isola Tiberina; altri invece dovettero far fronte alla loro malasorte. Dopo due notti che parevano non cessar mai presso il collegio militare di via della Lungara, dove venne alla luce una bambina che mai poté crescere, più di mille persone vennero deportate come stracci nelle fredde e desolate lande di Auschwitz, senza mai fare ritorno. Solamente 16 vite stremate riuscirono a oltrepassare il filo spinato, ma niente sarebbe stato più come prima nemmeno per loro.
Cosa avranno passato queste povere anime ormai ombre vaganti per Auschwitz, cosa si saranno risposti sul perché di tutto questo? È stato forse un dispetto crudele nei loro confronti?
“E forse la vera ragione era proprio che non ce ne fosse nessuna: l’inferno gratuito, perché riuscisse più misterioso, e perciò piú intimidatorio.”
Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943
“Probabilmente la vera realtà di questa mostruosità non dipende dalle azioni responsabili delle creature umane, ma dal delitto di essere nati.”
Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943
Basilica di San Pietro, Città del Vaticano, 15 Ottobre 2024
Ottantuno inesorabili anni più tardi da quel tragico giorno, noi studenti del liceo Giulio Cesare abbiamo partecipato attivamente all’evento commemorativo organizzato ormai da dodici anni dall’associazione “Ricordiamo Insieme” e da “Centro Alti Studi per la Difesa”. La marcia di quei mille passi che separano San Pietro dal palazzo Salviati (l’ex collegio militare), è ormai un appuntamento fisso per la nostra scuola. L’evento ha previsto come al solito due momenti: uno in piazza San Pietro, che ha visto la partecipazione del prof. Massimo Giuliani, docente di Pensiero Ebraico e di Massimo Gargiulo, Pro direttore del centro Cardinal Bea della Pontificia Università Gregoriana: in questi giorni così difficili, attraversati da conflitti e tensioni, è emerso il tema del persistente antisemitismo, temuto dagli esponenti della comunità ebraica romana, nonché un sincero ricordo delle vittime, in particolar modo dell’unica donna sopravvissuta dal rastrellamento del ghetto: Settimia Spizzichino, venuta a mancare nel 2000 all’età di 79 anni. I famigliari Spizzichino hanno messo in luce la determinazione della superstite nel testimoniare quell’orrore.
Dopo la marcia dei mille passi, ognuno dei quali racconta una storia tragicamente interrotta, a palazzo Salviati abbiamo avuto l’occasione di ascoltare gli accorati inviti alla pace e al dialogo del rabbino capo di Roma Riccardo Shemuel Di Segni, dell’arcivescovo Santo Marcianò e del generale Stefano Mannino, nonché di partecipare a un rito commemorativo delle vittime, una performance dal titolo “Il silenzio dei bambini”: ciascuno di noi ha posto una candela accesa su uno dei tanti, troppi, tasselli sparsi per il chiostro del collegio. Su ogni tassello era scritto il nome della vittima, un bambino o una bambina, con la data di nascita e di morte. Quelle candele, le cui fiamme illuminavano i loro nomi e in qualche modo le loro piccole vite passate, sono state simbolicamente importate da Auschwitz. Molto belli sono stati poi i concerti dei due cori presenti, composti da giovani dei licei musicali.
Siamo grati all’associazione “Ricordiamo insieme” per averci reso partecipi a quest’evento, e per aver fatto in modo che non ne si perda mai la memoria.
“L’Olocausto è una pagina del libro dell’umanità da cui non dovremmo mai togliere il segnalibro dalla memoria.”
Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947