di Veronica Angelini, II G, Sofia Liverani e Bianca Muffato, II F
Da ormai svariati numeri del nostro giornale, è diventata quasi consuetudine redigere e pubblicare una serie di interviste il cui scopo è conoscere meglio i nostri docenti, così da comprendere per quale motivo abbiano intrapreso la loro carriera e quale percorso li abbia portati a compiere la scelta dell’insegnamento, cercando di scoprire chi sono davvero le persone che ci guidano nella formazione e nella crescita personale.
Incontriamo oggi il professor Alberto Lentini, docente di storia e filosofia.
Lei è stato alunno del Giulio Cesare. Quanto e come crede che sia cambiata la scuola?
È cambiata tanto, e non è cambiata in meglio. Credo che ormai ci siano troppi interessi nella scuola, troppe interferenze che danno sempre meno spazio all’insegnamento effettivo. Mi verrebbe da dire che prima c’erano già degli elementi – forse! – un po’ demagogici, ma sono certamente aumentati con il passare del tempo. Adesso la scuola è anche un po’ “affaristica”: ci sono degli interessi molto forti e troppe pressioni anche da enti esterni che spesso distraggono da quello che è davvero fondamentale. Credo che questo sia cominciato alla fine degli anni Novanta con la riforma Berlinguer, e poi anche con i successori al Ministero dell’Istruzione.
Poi, per il resto, questa come altre, era una scuola più selettiva. Adesso c’è la tendenza – probabilmente dettata da queste pressioni – a mandare tutti avanti. Il che è anche ammirevole, ma ritengo che si sia passati da un estremo all’altro: alla fine non è positivo nemmeno per i ragazzi, specialmente poi per la vita. Si pensa che il fatto di non abituarsi alle difficoltà, che tutto viene appianato, li faciliti; secondo me, alla lunga, li mette solo in difficoltà.
Un’altra cosa, che però non rimpiango per niente, che vivevo nella mia epoca a scuola era la violenza politica che noi studenti avevamo tutto intorno. La violenza politica era attorno a noi, ma anche tra gli stessi ragazzi del Giulio Cesare. Non lo rimpiango proprio.
Cosa intende per “violenza politica”?
All’epoca erano quasi comuni scontri di persone appartenenti a fazioni politiche, che a volte sfociavano in veri e propri atti di violenza: quando io feci il liceo, per esempio, è stato ucciso il poliziotto Francesco Evangelista (il Serpico, ndr.) per mano di un gruppo di terroristi di estrema destra. Un altro mio compagno, poi, dovette cambiare scuola perché era stato coinvolto in episodi – non gravi – di cronaca. Davvero non potete immaginare, era qualcosa che assomigliava a degli scontri tra bande: «questa zona è mia, questa è tua». Era ammirevole che i ragazzi avessero degli ideali, però inevitabilmente venivano strumentalizzati e finivano a diventare azioni spregevoli.
Da quando insegna qui al Giulio Cesare?
Dal 2020, ormai.
Che effetto fa insegnare nella scuola in cui ha studiato?
L’effetto è certamente difficile da spiegare: sembra un sogno, sembra veramente un sogno. Credevo che tornare da docente dove sono stato studente sarebbe stato qualcosa di utopistico, è stata una cosa che non avevo previsto.
Non credevo che sarei mai tornato anche perché ci sono stati tanti cambiamenti nella mia vita e in fin dei conti risultava assai improbabile: dopo essermi diplomato al Giulio Cesare, mi sono iscritto all’università di Bologna perché mi ero deciso – potrei quasi usare il termine “fissato” – con la laurea in Storia. Questo però ha comportato il trasferimento mio e della mia famiglia in Emilia. Sono rimasto poi lì 23 anni, ho cominciato a insegnare lì, poi finalmente sono tornato a Roma, pur insegnando a Tivoli: non pensavo che sarei poi riuscito a tornare al Giulio Cesare.
È stato anche un caso, perché quando ho fatto domanda di trasferimento inserendo sei scuole, al secondo posto avevo messo il Giulio Cesare, ma senza minimamente sperarci, l’avevo fatto quasi per gioco. E invece poi le cose sono andate così. Al di là del Giulio Cesare, però, l’emozione più grande è stata ritornare a frequentare il quartiere in cui sono nato e cresciuto.
Quindi è sempre rimasto affezionato alla scuola.
Certamente. Un senso di appartenenza c’è, è rimasto sicuramente. Anche se poi, forse, i ricordi più belli li ho delle scuole precedenti: delle elementari e delle medie, che ho fatto al Settembrini.
Si rivede negli studenti a cui insegna?
Ci sono delle cose che non cambiano mai e che mai cambieranno: le potenzialità intellettuali in primis, ma poi, chiaramente, anche i caratteri, le emozioni, e ogni cosa che caratterizza i ragazzi. Quello che è cambiato molto e in cui ovviamente non riesco a riconoscermi è il rapporto con la tecnologia, che alla fine rischia di limitare le capacità della persona. Può essere che io sia prevenuto. Non nego che possa aiutare in alcune cose, ma alla fine sulla bilancia pesano di più gli svantaggi: mi sembra che in questo modo i ragazzi perdano delle capacità quasi cognitive, di critica. Lo smartphone, molto spesso, è uno strumento che fa istupidire; diventa un flagello, secondo me.
Secondo Lei, in quale modo la tecnologia va a far danno agli studenti?
Io noto delle difficoltà a mettere in pratica le capacità di critica, ma anche solo a capire dei testi non particolarmente ostici; vedo, in generale, un aumento della superficialità – fermo restando che non è che i ragazzi siano tutti uguali, certamente. Io non ho mai amato la tecnologia nemmeno quando ero bambino, pensate un po’, e all’epoca non era certo sviluppata come lo è oggi. Io sono di parte, ma temo che questi effetti negativi siano constatabili piuttosto oggettivamente.
L’insegnamento è sempre stato il suo obiettivo, oppure inizialmente aveva altri piani?
Inizialmente non avevo le idee così chiare, devo dire. Io ho avuto sempre la passione per a storia e mi ero intestardito nel seguire questa strada; non pensavo tanto agli sbocchi professionali, al lavoro, ma pensavo: «Questo è quello che mi piace, voglio fare questo». Sono arrivato all’insegnamento in parte per vocazione, in parte per caso, come spesso avviene.
Era comunque una possibilità che avevo tenuto in considerazione, ma tutto si è sbloccato quando facevo il servizio militare: durante il servizio militare mi ero iscritto alle prove di un concorso di abilitazione – dopo la laurea, perché ho fatto il servizio militare quando ero tra i 25 e i 26 anni – però era un’abilitazione in materie letterarie; soltanto dopo ho conseguito l’abilitazione in Filosofia e Storia. Mi ero iscritto a questo concorso senza particolari speranze, dato che durante il servizio militare non c’era tempo per studiare, se non davvero pochissimo. Ero in Emilia, ma avevo scelto di dare la prova a Roma; ho dato questa prova quasi senza speranze, quasi più per avere la licenza di quindici giorni che spettava a chi faceva un concorso. Siamo nel 1991, avevo 26 anni. Mi presento, mi siedo, leggo le tracce. Il mio primo istinto era quello di andarmene. Però non era possibile, perché comunque bisognava rimanere per almeno tre ore, perciò scelgo la traccia di Storia moderna.
Terminata la prova, non ho più saputo niente per mesi, quasi sicuro di non averla superata. A distanza di quasi un anno, mi arriva invece una lettera per cui avevo superato questa prova, sebbene non con un punteggio alto – anche perché il tempo per studiare non c’era stato. Insomma, avevo un mese per prepararmi su tutta la letteratura italiana, tutta la storia fin dalle origini, poi sulla geografia, l’educazione civica… Diedi l’orale nel 1992 a Roma, non ottenendo un punteggio tale da vincere subito la cattedra, riuscendo però ad avere l’abilitazione. Dopo questa abilitazione ho cominciato a fare supplenze e a lavorare a Reggio Emilia, in altri istituti, non in licei.
Hai insegnato sempre solo al liceo?
Non ho mai insegnato alle medie; ho invece insegnato in scuole di secondo grado superiore, che non erano licei bensì istituti professionali e strutture analoghe. Quindi si può dire che ho fatto la gavetta.
Quando è nata la sua passione, la sua “fissazione”, per la Storia?
L’ho avuta certamente fin da bambino, bambino proprio. Però è necessario aggiungere – e potrebbe suonare inquietante – che fin dai tempi del liceo, ho sempre avuto una grande predilezione anche per la Filosofia, che non è per me un’ancella della Storia, bensì una materia degna del suo nome; fermo restando che la Storia è un po’, diciamo, il mio cavallo di battaglia.
Si sentono, però, quando un ragazzo decide di intraprendere un percorso di laurea in Storia, frasi del tipo: «Ah! Che coraggioso!».
Le prospettive lavorative non sono tantissime, ma dipende anche in quale campo specifico uno si vuole applicare. Naturalmente c’è l’insegnamento, che, anche per una serie di motivi di vario tipo, offre prospettive spesso poco rosee; nonostante questo, il momento dello stare in classe rimane una cosa bellissima, sempre che poi ci siano dei ragazzi che abbiano voglia di seguire. Disapprovo invece tutto il resto, che è superfluo e ozioso: disapprovo il “riunionismo”, disapprovo gli interessi intorno alla scuola, disapprovo la burocrazia, e qualsiasi cosa che ostacoli il fare scuola.
Se possiamo essere onesti, dalle Sue lezioni ci è sembrato che Lei non abbia molta fede nell’umanità.
Conoscendo la storia è naturale (ride, ndr.).
E allora perché studiare la storia e il pensiero umano?
Perché? Questo può anche sembrare contraddittorio, però evidentemente ci sono anche delle cose a cui non posso rinunciare: posso essere anche misantropo, ma comunque apprezzo la letteratura, l’arte, l’ingegneria, la capacità di costruire le città intere… Questo lo ammiro, non riesco a condannare tutta l’umanità. Detto questo, credo che sia veritiero dire che l’uomo altri non è che la scimmia assassina.
In fondo non sono così pessimista, ma in fondo, un po’ di pessimismo credo che sia doveroso. I filosofi migliori, per me, sono proprio quelli che hanno detto delle cose spiacevoli, come Machiavelli, Hobbes, o Schopenhauer, che non hanno avuto molta fortuna, eppure secondo me sono i più grandi; non certo quelli che parlano di una meravigliosa umanità. Ho forse pure un lato di misantropia, però allo stesso tempo sono socievole. Ma forse sono contraddittorio perché la realtà stessa è contraddittoria.
Partendo sempre dallo stesso presupposto pessimista, allora perché insegnare?
(Sospira.) Perché insegnare… mi verrebbe da rispondere «perché no?». Non è che i ragazzi siano innocenti, anzi, ce ne sono tanti che sono particolarmente smaliziati, però, forse, c’è una speranza che si possa fare qualcosa di buono; c’è la speranza che non siano poi così “guastati” come gli adulti, e che si possa ancora intervenire.
In effetti, l’impressione che abbiamo avuto, parlando con Lei in classe, è che alla fine sia a scuola unicamente per gli studenti.
Lo sono a modo mio, però mi verrebbe da dire «Sì, la risposta è sì». In fondo fare lezione, stare a contatto con gli studenti è la cosa che mi piace di più. Certo, sempre partendo dal presupposto che siano degli studenti che hanno voglia di fare, che siano disposti ad ascoltare, che abbiamo un minimo di educazione e di disciplina. Secondo me è vero che gli insegnanti dovrebbero parlare di più con gli studenti, capirli di più, però la verità è che in certi contesti c’è stato un tale peggioramento che un insegnante non va a fare l’insegnante, va a fare l’assistente sociale, va a fare il badante.
In quali contesti?
Per esempio, vi posso dire che ho visto uno scadimento di istituti che potevano avere e hanno sicuramente in teoria una loro dignità. Mi viene in mente una delle prime supplenze che ho fatto in Emilia in un istituto tecnico-industriale: vi posso assicurare che era quasi come un liceo scientifico, con ragazzi molto bravi, che volevano studiare e che sapevano comportarsi. Nello stesso istituto, dopo 10 anni – nel frattempo avevo cambiato varie scuole, però sono ritornato lì – c’era stato un evidente scadimento. Da quello che mi hanno detto dei colleghi che erano rimasti in quei 10 anni, quell’istituto tecnico-industriale era diventato come un professionale.
E poi c’è sempre quest’impostazione sbagliata di mandare comunque avanti tutti, per non avere problemi, per non avere ricorsi… che alla fine si ritorce contro gli studenti. E questo non lo capiscono gli studenti – il che è inevitabile – ma, cosa peggiore, è che non lo capiscono nemmeno i genitori. Questo è uno dei grandi mali della scuola italiana.
Cosa intende?
Ricordo le scuole medie che ho fatto al Settembrini, e ne ho di bei ricordi, però ci sono stati dei casi non isolati di bocciati: ricordo, solo in seconda media, sei studenti bocciati. Al di là di episodi a me sempre rimasti impressi, come di quando la mia professoressa ha dato uno schiaffo a un mio compagno, episodi che assolutamente condanno, credo che un sistema come quello fosse meglio, perché questi ragazzi avevano certamente dei grandi dispiaceri, però erano più abituati alle negazioni, alla vita, ai rifiuti, ma erano abituati poi a superare le difficoltà. Questo è venuto del tutto meno! Per cui, alla prima difficoltà succede una tragedia – e non parlo solo delle interrogazioni. Io penso che assolutamente bisognerebbe recuperare quello spirito, ma temo che sia impossibile perché ci sono sia troppi interessi in ballo e un modo di pensare, secondo me, sbagliato. All’epoca forse era un selezionare “per selezionare”, ma ora si potrebbe evitare di finire all’estremo opposto. È anche vero però che ci sarebbe bisogno di adulti preparati, perché anche nell’insegnamento il rischio concreto che il livello si sia ulteriormente abbassato c’è.
Questo a cosa crede che sia dovuto?
A parte la questione bocciature, credo che la causa sia la tendenza all’adeguarsi in modo passivo senza capire le differenze scolastiche tra i singoli studenti. Certamente ha poi un ruolo importante la paura dei ricorsi, cosa sbagliatissima quanto sbagliata la mentalità per cui tutti devono essere uguali, per cui tutti devono andare avanti: non siamo tutti uguali. Non siamo tutti in grado di fare le stesse cose. La scuola dei primi anni Sessanta poteva essere classista ma, in un certo senso, mi sembra che lo sia di più adesso, mandando avanti tutti senza riguardi; perché poi il risultato finale è che chi si può permettere di pagarsi gli studi continua, mentre gli altri no, e avremo una marea di persone che non sono davvero preparate e che vanno a ricoprire un qualunque incarico, anche pubblico, senza averne di fatto le capacità per farlo.
A dire la verità, poi, io non sono nemmeno tra i “falchi” che vogliono bocciare in maniera ingente, anzi, forse è questa una mia colpa. Però è proprio un’impostazione sbagliata della scuola italiana: Se in una classe ci sono tante insufficienze, la colpa non è dei ragazzi che non studiano e che hanno delle gravissime lacune, ma è dell’insegnante (sospira). Come diceva una mia professoressa – quella dello schiaffo -, e come ormai tendo a dire anche io alle mie classi: « Non ci siamo. Non ci siamo».