di Sofia Liverani, II F
Dante concepisce il Purgatorio in antitesi con l’Inferno, conferendogli, con l’esattezza di un calco, la medesima forma, seppur perfettamente opposta. Il contrasto tra i due ambienti si manifesta tanto nella loro struttura, quanto nei versi delle rispettive cantiche: si percepisce nitidamente nel passaggio dall’una all’altra il profondo mutamento di materia, di tono poetico, e di stile.
L’elemento che per primo salta all’occhio è la presenza della luce, metafora ricorrente nelle cantiche, come nella simbologia cristiana, della presenza divina, che nell’Inferno veniva del tutto meno. Dalla profonda notte infernale Dante emerge in un mondo nuovo, pervaso di un chiarore soffuso che circonda i penitenti come le tessere d’oro che fanno da sfondo ai mosaici bizantini di Giustiniano e Teodora a Ravenna e che infonde nell’animo del lettore l’idea di un ritorno alla vita (v. 7 canto I) alacre e gioioso, un sospiro di sollievo dopo i trentaquattro canti di cieca sofferenza.
La presenza inoltre di ridenti astri in cielo, che paiono emanazione della gioia che viene dal servire il Signore, non si ritrovava fin dal canto I dell’Inferno, quando Dante era in procinto di scendere nei cerchi dei peccatori. Spicca nel firmamento un’ignota costellazione, che rassomiglia in maniera incredibile a quella che noi conosciamo come Croce del Sud (v. 23 canto I), le cui stelle si fanno simbolo delle quattro virtù cardinali; esse, insieme al severo rimprovero di Catone che nel secondo canto (vv. 118-123) si presenta come voce della coscienza, ricordano ai peccatori che la serenità dell’anima è cosa buona e giusta, ma non bisogna lasciare che essa diventi motivo di distrazione dai propri doveri morali che portano alla faticosa ascesa del monte dell’Eden.
La brusca interruzione, poi, del soave canto di Casella da parte dell’Uticense mette fine all’ “amoroso canto” mondano (vv. 107 e 112, canto II), mentre lascia risuonare di buon grado la melodia celeste del salmo 113 (v. 46, canto II); quest’ultimo elemento, così come la descrizione dell’angelo nocchiero (vv. 13-44, canto II) che brilla di un bagliore indescrivibile è un importante punto di distacco dalla cantica più profana, abitata da grida di straziante dolore e da patetici pianti dei dannati, e un assaggio della poetica di santissima ineffabilità del Paradiso, in cui l’elemento di luce divina è portato all’estremo.
Un altro elemento caratteristico della simbologia cristiana da cui Dante attinge a piene mani è l’effetto purificatore dell’acqua; si pensi al battesimo di Cristo o alla lavanda dei piedi (Giov. 13, 4-5), due episodi emblematici all’interno del Vangelo. Il rito di purificazione di Dante (vv. 121-136, canto I) ricorda in particolar modo l’episodio del cieco nato (Giov. 9, 6-7) il quale, dopo aver lasciato che Gesù Cristo gli coprisse gli occhi con del fango, lavandosi, acquista la vista. Allo stesso modo, Dante, dopo aver interiorizzato e poi allontanato le colpe dei dannati durante il suo viaggio attraverso l’Inferno, facendosi risciacquare il viso da Virgilio in una cerimonia catartica, fa il primo vero passo per liberarsi dai peccati; si dovrà aspettare ancora il canto XXVIII del Paradiso per una vera e propria purificazione attraverso il bagno nel Letè, fiume inesauribile perché frutto della volontà e bontà divina. Si pensi infine ad Atti, 22, 16, che cita “Alzati, ricevi il battesimo e lavati dai tuoi peccati”: se l’acqua è metafora della Grazia divina, non è dunque un caso che il monte del Purgatorio si trovi circondato dal mare.