di Veronica Angelini, II G, Sofia Liverani e Bianca Muffato, II F

È diventata consuetudine per il nostro giornale redigere e pubblicare interviste il cui
scopo è conoscere meglio i nostri insegnanti, così da comprendere per quale motivo
abbiano intrapreso tale carriera e il percorso che li ha portati a compiere tale scelta,
cercando di scoprire chi sono davvero le persone che ci guidano nella formazione e nella
crescita personale.
Incontriamo oggi la professoressa Antonella Daniela Zisa, docente di latino, greco ed
italiano

Professoressa Zisa, Lei ci ha detto in classe di aver studiato archeologia. Com’è
arrivata all’insegnamento?

L’archeologia era un mio sogno del liceo, in quanto ero appassionata specialmente di
etruscologia. Sono venuta dalla Sicilia fino al Lazio per studiare, in quanto Roma è nota
per dare maggiori opportunità, anche per approfondire la mia materia: gli Etruschi sono
infatti latium vetus, quindi questo è il loro territorio. Una volta arrivata all’università,
dopo aver conosciuto la complessità della vita universitaria, venendo da un centro che
era abbastanza “provinciale”, ho cominciato ad apprezzare la numismatica antica. Mi
affascinava, perché essa portava allo studio dell’economia antica, oltre che, ovviamente,
della numismatica vera e propria, che si limita a studiare le monete, apprezzate come
documento storico, in quanto consentono di datare determinati contesti archeologici;
ricostruire la storia di un territorio grazie alla storia delle monete antiche mi intrigava.
Il numismatico, poi, non sta sul sito dello scavo, bensì studia i suoi reperti.
Mi sono divertita, ma ho anche fatto un lavoro impegnativo: avendo lavorato subito nel
dipartimento di numismatica, mi occupavo di fare lezione agli specializzandi e di seguire
le loro tesi. Dopo un po’ ho cambiato orientamento e, apprezzando l’insegnamento, mi
sarebbe piaciuto in prima istanza restare all’università per insegnare come ricercatore;
ho anche vinto un concorso, arrivando seconda, ma il secondo posto poi non si è mai
liberato. Nella vita però succedono molte cose e quando ho vinto due concorsi nella
scuola ho pensato che fosse quello il mio destino: allora ho deciso di lavorare nella
scuola, di portare la mia passione per l’antichità coniugata alla visione moderna della
tecnologia, dei cambiamenti e delle innovazioni, in classe, perché credo che vi stimolino
molto e che debbano essere conosciute per decidere se usarle, come e perché.

In quali altri licei ha insegnato, oltre al Giulio Cesare?

La mia prima cattedra fu al liceo classico di Palestrina; chiesi poi il trasferimento per
l’Avogadro e infine per il Giulio Cesare dal 2008. Sono state decisioni prese senza avere
un obiettivo preciso, spinte dall’idea di passare da un liceo scientifico a uno classico.

Da quanto insegna, dunque?

Insegno dal 1992, quando ho iniziato come supplente al Tasso mentre stavo in
università, durante la specializzazione.
Non è stanca a fare tutti gli anni gli stessi programmi da così tanto tempo?
Non sono sempre gli stessi programmi! È impossibile fare sempre gli stessi programmi.
Innanzitutto i “programmi” non esistono: si parla di programmazione, ovvero di
indicazioni nazionali – si chiamano così i documenti di riferimento – all’interno dei quali
noi docenti ci muoviamo. Sono campi contenenti autori, generi, epoche, stilati per tutte
le discipline, che però possono essere declinati in base al profilo e al curriculum della
classe. Bisogna certamente tenere conto delle inclinazioni e delle passioni degli studenti,
facendo diventare le indicazioni del ministero, ampliandole e curvandole, sistemi di
apprendimento, di consolidamento e di potenziamento. È molto semplice.

Come si svolge il processo di apprendimento con i ragazzi?

Gli studenti sono il soggetto del mio lavoro, ovviamente. I docenti sono professionisti
della didattica e in quanto tali danno vita a una relazione di costruzione del sapere, non
di semplice trasmissione, con gli alunni: il sapere si costruisce insieme, in classe, fuori
dalla classe. Con gli obblighi che il legislatore impone, quali le valutazioni
standardizzate, ci si deve muovere in maniera contraddittoria tra un approccio
educativo, formativo, proprio per “educare” – educere – e presidiare, per “istruire” –
instruo. Questo è il lavoro da fare con gli studenti: dare loro degli strumenti di
conoscenza, perché riescano a ricavarla dall’esperienza; senza la conoscenza non c’è
nulla, non ci sono le competenze, né il saper parlare, il saper argomentare, l’avere un
lessico forbito, il capire le situazioni, il rapportarsi in una situazione informale, in una
formale – tutte quelle cose che vengono chiamate soft skills.

A proposito di rapporti, quale dovrebbe essere, secondo Lei, il rapporto tra
docenti e studenti?

Senz’altro è necessario un rapporto di rispetto reciproco. Da un lato ci sono persone in
crescita, che hanno tutte le potenzialità per migliorare, con le quali è senza dubbio
fruttuosa un’alleanza costruttiva. Dall’altro lato è fondamentale il rispetto della
professionalità del docente: senza di esso non ci può essere alcun tipo di relazione
positiva e si cade nel noiosissimo espletamento di un lavoro standardizzato per il
docente e nello studiare il minimo indispensabile per ottenere una valutazione
sufficiente per lo studente, senza dare valore al percorso del sapere che si pensa.

Cosa cambierebbe del sistema scolastico della scuola?

Questa è una domanda difficile, perché dal mio punto di vista molte cose dovrebbero
cambiare, alcune delle quali sono afferenti alla professione stessa dell’insegnante e alla
natura organizzativa delle istituzioni scolastiche. Senza dubbio ritengo che la prima cosa
che va messa in rilievo e su cui si dovrebbe lavorare è, come dicevo, il rispetto. Non a
caso questa parola riguarda la scuola, tutti coloro che lavorano e che sono all’interno di
essa, e riguarda la società intera. La Treccani stessa ha lasciato all’attenzione di tutti
come parola dell’anno proprio la parola “rispetto”.

Per quale motivo crede che gli studenti non abbiano interesse nel rispettare i
docenti?

Credo che i motivi siano molteplici. Dal mio punto di vista, i docenti non sono così
apprezzati da loro, sebbene rappresentino la realtà: la scuola è percepita come un luogo
sociale, ma non “sociale” per socializzare e acquisire la conoscenza, la sapienza, la
volontà di migliorare e il rispetto, bensì come un luogo in cui passare il tempo. La scuola,
in fin dei conti, è stata ridotta a una funzione di ammortizzatore sociale per tutti i
problemi che la politica, nel tempo, non ha saputo risolvere. Auspichiamo che vengano
risolte, in quanto la scuola non può essere luogo in cui passare passivamente il tempo,
perché non si sa come organizzarsi diversamente.

Analogamente alla domanda precedente, perché, secondo Lei, gli studenti non
sembrano essere interessati ad imparare, ma tendono a dedicarsi ad altro
durante le stesse lezioni?

Penso che spesso non riescano prontamente a cogliere e a rendersi conto
dell’importanza di ciò che stanno facendo e dell’opportunità che hanno in classe, dal
punto di vista della costruzione della propria essenza e della propria persona. Il lavoro
dello studente è tutto qui: impegnarsi nello studio. Quando si fa quello scatto di
consapevolezza, però, non è più lo studio finalizzato a un voto, bensì alla propria
persona. La cultura aiuta a forgiarsi e a costruirsi, e ciò che si fa in classe non è altro che
cultura. Se non si dà importanza a questo, non si dà importanza neanche al progetto
educativo che la famiglia permette ai figli. Poi, ad una certa età, lo studio non è più un
obbligo e si deve capire cosa si vuole fare: proseguire su una strada di crescita
consapevole, nella conoscenza, nello studio, per quello che poi potrà dare in futuro,
oppure prendere altre strade, che possono essere forse, più amate, ma riduttive per sé
stessi, senza essere frustrati da decisioni e pressioni che vengono dalle famiglie.
Gli studenti dovrebbero quindi svolgere un ruolo attivo nella conoscenza.
Precisamente. Dovrebbero applicarsi attivamente e chiedere, pretendere conoscenza
proprio là dove vedono una docenza più “comoda”. È uno stimolo interattivo: gli
studenti stimolano i docenti così come l’inverso; e quando dicevo “si costruisce il
sapere”, si fa proprio in questo modo. Io credo in tutto questo (ride, ndr.).

Vorrebbe aggiungere qualcosa?

Vorrei aggiungere che io sono molto contenta del mio lavoro, così come delle classi che
ho avuto, che ho e che avrò, perché l’80% degli studenti – salvo la deviazione standard
congenita di coloro che non intercettano il messaggio che si vuole comunicare –
comprende il lavoro che voglio svolgere, il fine a cui voglio arrivare insieme a loro, che
chiaramente è per loro vantaggio, per la costruzione del loro sapere e per il loro
miglioramento continuo – anche dei docenti stessi nella relazione con gli studenti -,
come all’interno del miglioramento continuo che suggerisce la comunità europea,
per tutti, in ogni fase della propria vita.