di Beatrice Orsini, II F

Nel corso delle vacanze di Natale tutta l’Italia è stata sconvolta da sentimenti di paura, ansia e
sdegno per l’ingiusta carcerazione della giornalista Cecilia Sala. La notizia, divulgata il 27
dicembre, non è stata resa di dominio pubblico fin da subito, dal momento che
l’incarcerazione era avvenuta otto giorni prima, il 19 dicembre.
Prima di raccontare una vicenda che avrebbe potuto scatenare uno dei più grandi incidenti
diplomatici degli ultimi anni, e che ha sottolineato l’enorme valore di una libertà che, in alcuni
Paesi, viene annichilita e ignorata, occorre presentare la figura di Cecilia.
Nata a Roma nel 1995, giornalista professionista, ha collaborato con “Vice”, “Vanity Fair” e con
“l’Espresso”, mentre dal 2019 ha preso parte alla redazione del “Foglio” come giornalista
freelance. Ha pubblicato due libri: “Polvere. Il caso Marta Russo”, e “Incendio, reportage su
una generazione tra Iran, Ucraina e Afghanistan”. I suoi interessi primari sono la geopolitica e
le relazioni internazionali: ha seguito sul campo la crisi in Venezuela, le proteste in Cile, la
caduta di Kabul sotto il regime talebano e la guerra in Ucraina. È proprio del mondo, della
situazione estera, di storie dimenticate e recondite che Cecilia parla nel suo podcast
quotidiano, di cui è conduttrice e autrice: “Stories”, prodotto da Chora Media.
Cecilia incarna l’essenza del giornalista: mente lucida e sgombra da pregiudizi, pronta,
coraggiosa, curiosa e attenta ai dettagli della realtà che la circonda. È proprio grazie alla sua
determinazione e al suo coraggio che è riuscita ad affrontare a testa alta la terribile vicenda di
cui è stata protagonista.
La giornalista era arrivata a Teheran il 12 dicembre con un regolare visto della durata di otto
giorni, per registrare alcuni episodi del suo podcast “Stories”. Il suo interesse si era soffermato
sulla condizione del patriarcato nel paese e sulla vicenda della comica Zeinab Musavi,
arrestata dal regime per alcuni sketch. Aveva anche discusso con Hossein Kanaani, uno dei
fondatori delle Guardie rivoluzionarie, che per quasi mezzo secolo aveva giocato un ruolo
fondamentale nella creazione di una vasta rete di milizie filo-iraniane attive in tutto il Medio
Oriente.
Il 19 dicembre Cecilia è stata prelevata dall’hotel in cui alloggiava ed è stata trasferita in una
cella di isolamento nel carcere di Evin. Nelle prime ventiquattr’ore non le è stata permessa
alcuna comunicazione, mentre successivamente ha effettuato due telefonate rivolte alla
famiglia e al compagno e giornalista Daniele Raineri, in cui li informava sulle sue condizioni.
Il carcere di Evin è noto per essere la struttura in cui sono detenuti migliaia di oppositori
politici, giornalisti, dissidenti iraniani e cittadini stranieri. Molti ex-detenuti, tra cui la blogger
italiana Alessia Piperno, hanno raccontato le condizioni disumane in cui sono costretti a
scontare la loro pena: le celle possono essere comuni, sovraffollate e in condizioni igieniche
terribili, oppure, come nel caso di Sala, di isolamento, piccole, senza finestre e con la luce
accesa 24 ore su 24.
I servizi italiani dell’intelligence per l’estero si sono mobilitati fin da subito per monitorare la
situazione ed ottenere la liberazione della giornalista; un primo passo importante è stato
ottenuto il 27 dicembre, quando l’ambasciatrice italiana in Iran, Paola Amadei, ha fatto visita a
Cecilia in carcere per rassicurarla ed indagare sulle sue condizioni di detenzione.

Ufficialmente, il governo iraniano non ha formalizzato un’accusa precisa contro Cecilia: il
Ministero della Cultura e dell’Orientamento islamico ha solamente dichiarato che la
giornalista era stata messa sotto inchiesta per “aver violato la legge della Repubblica islamica
dell’Iran”. La mancata chiarezza delle accuse contro Sala ha accresciuto lo sdegno
dell’opinione pubblica, alimentando l’ipotesi dello scambio con Mohammad Abedini
Najafabadi, ingegnere iraniano arrestato il 16 dicembre all’aeroporto di Malpensa.
Abedini Najafabadi, iraniano con cittadinanza svizzera, era stato arrestato dalle forze
dell’ordine italiane su mandato degli Stati Uniti, con l’accusa di aver fornito al Corpo di
Guardie della rivoluzione islamica droni ed apparecchiature elettroniche. Questo gruppo
paramilitare è visto dagli USA come un’associazione terroristica, accusata di aver ucciso tre
soldati in una base statunitense in Giordania durante un attacco con un drone. Abedini è stato
fermato subito dopo l’atterraggio a Milano da Istanbul, ed è stato trasferito in varie strutture
di detenzione, tra cui il carcere milanese di Opera.
Il 2 gennaio l’ambasciatore iraniano in Italia, Mohammad Reza Sabouri, aveva dichiarato
ufficialmente che l’incarcerazione di Cecilia era direttamente collegata al caso di Abedini.
Aveva inoltre aggiunto che le condizioni detentive di Sala erano reciprocamente legate a
quelle dell’iraniano, nonostante la giornalista fosse detenuta in isolamento, quasi senza alcuna
possibilità di mettersi in contatto con l’esterno, mentre Abedini si era incontrato più volte con
il suo avvocato e dei diplomatici iraniani. Il Ministero degli Esteri iraniano, tuttavia, il 6
gennaio ha ufficialmente smentito la correlazione tra i due casi, sostenendo di aver messo
sotto inchiesta Cecilia per altre ragioni. Abedini è stato liberato il 12 gennaio, quattro giorni
dopo la scarcerazione di Sala. Seguendo la procedura prevista dalla legge italiana di revoca
delle misure cautelari imposte a una persona in attesa di estradizione (chiesta dagli Stati
Uniti), il ministro della giustizia Nordio è intervenuto, motivando la scarcerazione con il fatto
che Abedini è accusato di reati che non sono presenti nel Codice penale italiano, mentre per
accordare l’estradizione il reato contestato deve essere contemplato da entrambi i paesi.
Cecilia Sala, come sopracitato, è stata scarcerata nella mattinata dell’8 gennaio ed è atterrata a
Roma nel primo pomeriggio. La sua liberazione è stata resa possibile da una grande opera di
mediazione e trattativa tra il governo italiano, quello iraniano e quello statunitense, culminata
con l’incontro tra la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ed il Presidente neoeletto degli
Stati Uniti Donald Trump. Sugli esiti dell’incontro però, per la delicatezza dei temi trattati, è
rimasto assoluto riserbo. 
La terribile esperienza di Cecilia, fortunatamente, si è conclusa con un lieto fine,
accompagnato dalle dolci foto della giornalista che riabbraccia i suoi genitori e il suo
compagno. Questo tipo di vicenda, tuttavia, purtroppo non è un unicum: basti pensare alla
storia di Ilaria Salis, che è stata anch’essa detenuta in un paese straniero in condizioni
disumane, con accuse ancora non perfettamente chiarite.
Il pensiero che un essere umano possa essere privato così arbitrariamente della propria
libertà, specie in un paese straniero, in cui l’isolamento dovuto alle barriere linguistiche e
culturali è straordinariamente alienante, porta a riflettere su quanta strada ci sia ancora da
percorrere per un mondo in cui sia presente un effettivo rispetto dei diritti umani.
La libertà e la giustizia sono valori imprescindibili, fondamentali per una società moderna e
civile, in cui l’individuo possa mettere a frutto le proprie potenzialità e svolgere il proprio

lavoro con onestà, senza avere il timore di alcun tipo di ripercussione. Il fatto che in molti
Paesi, tra cui l’Iran, diritti basilari vengano strappati via all’individuo come se non avessero
alcun valore, e che l’essenza stessa di ogni persona venga svalutata e sopraffatta, fa pensare
che le differenze sociali, culturali e legali sono ancora troppo grandi.
Personalità come Cecilia sono l’emblema di quello che serve per risanare un mondo ferito
come il nostro: forti, coraggiose, temerarie, prive di pregiudizi, resilienti, cacciatrici della
verità anche a costo della propria stessa vita. Cecilia è l’emblema stesso della lotta per la
libertà d’espressione e di azione, per la conoscenza delle storie dell’altro, e per lo sviluppo del
pensiero critico. Nel suo primo post su Instagram dopo la liberazione, Cecilia dichiara di avere
“il cuore pieno di gratitudine, in testa quelli che alzando lo sguardo non possono ancora
vedere il cielo”. La sua storia non è solo il racconto di una terribile esperienza personale, ma è
un forte richiamo all’importanza della libertà di stampa e della tutela dei diritti umani, valori
per cui Cecilia si è sempre battuta e continuerà battersi.