di Thea Ceccarelli, III G
Corre il 1824, Leopardi è di ritorno da quella Roma che aveva sognato, l’altrove tanto desiderato. Una Roma che si rivela palcoscenico di eruditi bigotti e intrappolati in schemi immutabili. Roma, la Città Santa, è in preda a un totale ed avvilente degrado morale. Il mondo che si apre sconfinato oltre il natio borgo selvaggio lo delude. Sono infrante le aspettative che il giovane aveva nutrito in Recanati, la tomba dei vivi, fantasie dalle quali si era lasciato guidare temendo di morire di disperazione in quel luogo privo di distrazioni potenti per la sua strana immaginazione.
Permeato dal disincanto e guidato dall’intento di scuotere il suo secolo e la sua povera patria, come scrive in una lettera all’amatissimo Giordani, Leopardi si dedica alla stesura delle “Operette Morali”, prose di argomento filosofico. Trae ispirazione dai “Moralia” del possibilista Plutarco e si dedica all’analisi del reale da più prospettive.
Fra i principali temi che preme al poeta trattare vi sono il vero, il piacere, la noia, il desiderio. Costituiscono questi il filo conduttore che guida la sua penna nell’intera produzione.
«Tu, in sostanza hai posto la tua vita, e quella de’ tuoi compagni, sul fondamento di una semplice opinione speculativa.» Così parla Pietro Guitierrez a Colombo nel dialogo che li vede protagonisti.
L’avventuriero che nell’immaginario collettivo è lo “scopritore” delle Americhe e il fido compagno sono in mare, naviganti in una sconfinata distesa che è metafora dell’esistere umano, dell’inconoscibilità dell’ignoto destino del singolo.
«Bella notte amico» esordisce Colombo e nel mentre chi legge vede le stelle, piccoli punti che brillano in cielo. Sente l’acqua che placida viene tagliata dalla prua della nave. Sa la luna silenziosa che rischiara i volti dei due e li illumina di candida luce.
Colombo guida l’intero equipaggio alla volta delle Indie ma aver a trovar terra al di là dell’Oceano è una sua vana congettura.
Com’è possibile sapere che «l’emisfero d’oriente occupato parte dalla terra e parte dall’acqua, seguiti che anche l’occidentale debba essere diviso tra questa e quella?» E se il mare fosse una distesa unica e immensamente sconfinata? «O che in vece di terra, o anco di terra e d’acqua, non contenga qualche altro elemento?»
«Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor.»
Asseriva Saffo in una placida notte. Così si esprime la giovane, profondamente intrisa di soggettività leopardiana, volgendo gli occhi a un cielo definito etra liquido e del quale hanno cantato Virgilio, Orazio, Tasso.
La ragione umana non si può avvicinare al vero se non dubitando. Scrive il poeta in una pagina dello “Zibaldone” riferita alla sorella Paolina. «Ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e non solo il dubbio giova a scoprire il vero, ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere».
Chi dubita sa perché immagina. Nel mistero dell’inconoscibile alimenta quell’aspirazione all’infinito nonostante la propria limitatezza. Continua incessantemente a protendersi oltre, sognando.
Cosa può il piccolo uomo indifeso e insignificante al cospetto di «una natura che si vede fornita di così tanta potenza». Una natura implacabile, una natura che non è a lui ostile ma indifferente. La vita sul nostro universo, anche secondo la concezione meccanicistica esposta da Lucrezio nel “De rerum naturae” è un perpetuo ciclo di distruzione e aggregazione volta alla conservazione del mondo.
“Nel dialogo della Natura e un islandese” questa si rivolge così all’interlocutore: «Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.»
L’islandese è metafora della condizione umana. Leopardi trae ispirazione nella scelta del personaggio dalla “Storia di Jenni” di Voltaire. L’islandese, infelice per antonomasia, è tormentato dal gelo glaciale e dalle eruzioni vulcaniche. Così l’uomo è aggiogato dalla morsa di una madre di fatto e di voler matrigna, prigioniero in un utero tonante, citando la “Ginestra”.
Questi non può che tenere alto il capo, così come il fiore che resiste nel deserto lavico
«su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo.»
Questi non può che andare avanti, verso l’ignoto, senza mai smettere di desiderare.
È bene determinarsi a viver per sognare come suggerisce il Genio famigliare a Tasso nell’omonima operetta. Il poeta, descritto da Leopardi prigioniero a Sant’Elena, come lo dipinge anche Delacroix, è vittima della noia. La noia è costituita dalla stessa materia dell’aria che colma gli spazi che sono interposti fra i vari oggetti materiali. Parimenti la noia si interpone fra piaceri e dispiaceri. È un anelare la felicità non soddisfatto dal piacere né tantomeno offeso dal dispiacere. È assimilabile allo streben, quella tensione che muove l’animo del Faust di Goethe, l’attesa eterna di quell’attimo al quale dire: fermati, sei bello.
Tornando a Colombo e Guitierrez, in quanto marinai, figli dell’ignoto, sono parzialmente emancipati da questo sentire. Hanno cara la vita perché, essendo privi di ogni bene materiale e navigando sospesi nell’indeterminato, desiderano e stimano preziosi anche i più semplici dei diletti, quelli che non sono considerati tali, ad esempio un cantuccio di terra.
Quel piacere che gli avventurieri sentono divampare nel petto ma che arde nel cuore di ognuno è definito da Leopardi non un sentimento ma un soggetto speculativo. Non si tratta di un tal piacere ma del piacere, “Il Piacere”. Esso guarda sempre al futuro, talvolta in direzione del passato ma non è mai carpibile nel presente.
Colombo è un personaggio che affascina lo scenario immaginativo del poeta. Questi rivede nella coraggiosa curiosità del navigante sé stesso. Il cuore di Leopardi e la pulsione che lo alimenta sono prigionieri in un corpo fragile e affaticato da quei stette anni di studio matto e disperatissimo che ne hanno lasciato un segno indelebile. Binni, Nelle sue “Lezioni leopardiane” definisce Colombo l’uomo che sa unire la poesia, la disposizione al sogno un binomio questo che sfocia in un senso dell’infinito. Colombo è un poeta radicato nell’uomo d’azione. Parimenti l’animo di Leopardi è quello di un uomo di azione radicato nel poeta. Le “Operette Morali” stesse hanno un fine pratico, toccare gli animi, smuovere le coscienze inibite.
Binni continua: «quando l’uomo trepida per la sua sorte, non è sicuro del risultato, è il momento in cui la vita diventa ricca di tensione, di profonde aspettative.» Quanto espresso dal critico è ciò Leopardi scrive nel 1919 al padre in una lettera che il conte Monaldo mai lesse. Il giovane tentò di procurarsi un passaporto per il Lombardo Veneto ma fu troncato da una delazione che arrivò a Monaldo stesso. Mosso dal volere l’oltre, dal desiderio di infinito di un avventuriero scrive di non essersi mai creduto fatto per viver come i suoi antenati. Prosegue poi: «Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero. So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così».
Leopardi insegna ad essere infelice piuttosto che piccolo, soffrire anziché annoiarsi, ci parla con una voce che vibra di forza, dolcezza, malinconia, desiderio.
Leopardi vede l’arido vero di questo mondo e sceglie il caro immaginar, il sogno, la speranza che è sempre superiore al bene, come riporta nella pagina dello “Zibaldone” dedicata alla “Teoria del piacere”.
Leopardi che conosce il vivere in tutto il suo disperato dramma lo ama, come i naviganti, intimamente e nel profondo, perché continua a desiderare.