di Thea Ceccarelli, III G

Leopardi in una pagina del suo Zibaldone scrive: «La mente umana si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza. Solo chi dubita sa e sa più che si possa».

«Cogito ergo sum». Penso dunque sono, asserisce Cartesio.

Dubito dunque esisto, vivo.

Solo esercitando facoltà di pensiero è possibile avere cognizione di sé e aprire la propria persona a un’indagine della realtà circostante. L’analitico Kant, nel rigore brillante con cui ha partorito la Critica della ragion pura, mette in luce che la cosa in sé, il noumeno, non è carpibile dall’intelletto umano.

L’interesse filosofico vive nella relazione che intercorre tra soggetto e oggetto, non nell’esistenza intrinseca degli stessi. È la res cogitans, l’io penso che esplora il mondo e lo declina, che lo traduce secondo le proprie categorie mentali.

È così armonica la relazione che lega il soggetto al pensiero dello stesso? È possibile percepire questo binomio come un unico sistema, come un “sinolo” di materia e forma indissolubilmente legato e mai scindibile?

Parigi 1965. Paul Ricoeur scrive: «Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono, ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a sé stessa».

In De l’interprétation: Essai sur Freud, questi definisce Marx, Nietzsche e Freud i tre maestri che dominano la scuola del sospetto. «Sono tre distruttori».

«Io sono dinamite», afferma Nietzsche con orgoglio.

L’attività esercitata dal triunvirato di grandi menti non si limita però al mero abbattimento di certezze.

Ricoeur mette in luce come il processo di demolizione sia simbiotico a un nuovo ricostruire. «Pur essendo detrattori della coscienza, mirano a una sua estensione», scrive.

«Dio è morto». Nietzsche assesta un fendente profondo alla religione, quel platonismo per il popolo che si traduce in miopia. Un nichilismo miope che non riesce, non può e non sa pensare la vita nella sua irresistibile potenza perché anela una dimensione ultraterrena. Nietzsche inchioda la storia, «Non esistono fatti, solo interpretazioni». Nietzsche condanna i valori, risultante di un utilitarismo pragmatico e gretto. E poi teorizza la volontà di potenza, una forza autosuperantesi che vibra nel Übermensch. L’oltreuomo ama la vita anche nel dramma disperato del dolore, la ama poiché vita, inarrestabile energia iniettata di immenso.

E così forse si contraddice. In una filosofia che annienta ogni pretesa deontologica costruisce un modello a cui tendere. È vero che solo il genio sente l’intuizione e può inciampare nell’incompatibile, credo.

Approdando nella sfera dell’economia politica Marx denuncia i limiti dell’alienazione e inneggia una presa di consapevolezza. Lo scarto a cui fa riferimento Ricoeur si concretizza tentativo di emancipare l’uomo dallo svilente stato che lo fa bestia.

Vienna, corrono gli anni Trenta del secolo breve. «Nella teoria degli ideali e delle illusioni» Freud indaga «il doppio atrio del sogno» e si prefigge, attraverso la psicanalisi, una guarigione atta a sostituire una «coscienza immediata e dissimulante» con una «istruita dal pensiero di realtà».

Ma è possibile istruirla una coscienza? Chiedo. Una coscienza che è insita all’interno di un io scisso da contrastanti pulsioni divergenti.

Woody Allen risponde: «La psicoanalisi è un mito tenuto in vita dall’industria dei divani».

Il regista, nel suo dissacrante umorismo è come Nietzsche dinamite.

Il Woody Allen che vive nei suoi personaggi è persuaso di una totale inefficacia della psicanalisi ma, fedele, continua a crederci, nel concreto, e frequenta un analista con costanza perseverante. L’intero cinema “alleniano”, intriso di Freud, è espressione della dicotomia che dilania un uomo spaccato fra chi è e chi parla per lui.

Allen recita: «È molto, molto difficile mettere d’accordo cuore e cervello. Pensa che, nel mio caso, non si danno nemmeno del tu». Esiste un divario incolmabile fra quello che si vuole, quello che si pensa di volere e ciò a cui diamo voce. Siamo la risultante di tante diverse pulsioni inconciliabili che si fanno guerra perché non sanno istaurare un piano di dialogo. Così, mentre queste volontà si azzuffano, noi, indubbiamente confusi, non saremo mai liberi. Quello che voglio non lo voglio.

Medea si strugge. Il desiderio determinato di vendetta, lavare con il sangue la lurida onta a cui Giasone, quell’infame, l’ha condannata, non rivolge neanche la parola all’amore viscerale per i figli che ha partorito e di cui è madre. La tragedia dell’eroina della Colchide si decide in una scelta. La risolutezza, la fragilità, il dolore, il θυμός di Medea echeggiano di eterno nella voce di Euripide.

Lo zibaldone dei vari sentire inconciliati che smuovono i protagonisti di Allen sono lo stesso miscuglio disomogeneo di istinti che abitano Zeno Cosini, protagonista di Italo Svevo in un romanzo che Montale definisce «commedia psicologica»: La coscienza di Zeno.

Mi piace immaginare Woody Allen figlio di Svevo. L’uno a Brooklyn, l’altro di Trieste, entrambi ebrei, influenzati da Freud, che traducono il senso di inadeguatezza in umorismo “wits”. E così, acuti e maldestri, si arrangiano in un mondo che li ha lasciati incompresi, spogli. Sono a nudo come in un quadro di Schiele. Ipocondriaci, disillusi ed estremamente affascinanti, proprio perché umani troppo umani, parafrasando Nietzsche. Nevrotici e malati, o forse solo più consapevoli di una condizione che è esistenziale, condivisa: l’inettitudine che scaturisce da una personalità disgiunta.

Per me la psicanalisi, il lavoro ermeneutico e il tentativo di avanzare un’esegesi dell’io è una necessità, proprio come lo è l’amore per Woody Allen.

In Io e Annie Alvy Singer racconta:

«Un tizio va da uno psichiatra e dice: Dottore, mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina.

E il dottore gli chiede: Perché non lo interna?

E quello risponde: E poi le uova chi me le fa?

Credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna: e cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi, e assurdi… ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova».

Noi umani troppo umani alla ricerca di uova siamo nevrotici, malati.

Baudelaire descriveva questo mondo come un ospedale in cui ogni paziente tenta continuamente e invano di cambiare letto. «C’è chi vorrebbe soffrire di fronte alla stufa, quello crede che guarirebbe accanto alla finestra. A me sembra che starei sempre bene là dove non sono, e di questa questione di trasloco discuto di continuo con l’anima mia». In un desiderio d’altrove insistente e mai interrotto. Altrove purché fuori dal mondo. Anywhere out of the world.

Non è possibile fuggire. Non siamo inadeguati per questa terra ma viviamo inadatti in noi stessi. L’escapismo non è contemplato. La scissione, il malessere è immanente e persisterebbe anche nella desiderata Itaca, al di là di quella leopardiana siepe e oltre la volta celeste.

Ma non vi voglio coinvolgere se sentite di essere al centro di voi stessi.

Io mi so così, nevrotica e malata.

Consapevole di un io scisso, pur continuando ad avere bisogno di uova, penso che nel mio letto d’ospedale un’ultima sigaretta con Zeno la fumerei.

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